Vi sono dei pazienti che durante i primi colloqui, e all’inizio dell’analisi si presentano in modo abbastanza comune, almeno in superficie. Lamentano ansia o disturbi somatici, appaiono depressi, o ansiosi, insoddisfatti delle loro vite, dei loro rapporti affettivi o del loro lavoro. Anche la storia che raccontano appare piuttosto normale. Non ci sono abusi, non ci sono lutti, o perdite drammatiche. Tuttavia, ad un ascolto ben esercitato c’è qualcosa di stonato. Sono piccole discrepanze, incongruenze, dissonanze incomprensibili. A volte non si capisce, semplicemente, dalla storia che si ascolta, il rapporto tra la normalità biografica che viene narrata e la profonda e reiterata infelicità che ne è invece risultata. A volte non ci si spiega la sproporzione tra gli eventi assolutamente normali e la persistente incapacità a condurre una vita soddisfacente. L’aspetto traumatofilico della vicenda ascoltata incuriosisce e non trova spiegazioni. A differenza di altri pazienti, non raccontano, né sembrano presentare un quadro familiare particolarmente difficile o faticoso.
Per un certo periodo iniziale l’analisi sembra svilupparsi in modo semplice e naturale. Vengono volentieri, hanno fatto subito spazio alle sedute, esternamente ed internamente, hanno ben presto riconosciuto un senso di immediato benessere e sollievo, e ne sono grati e l’analisi pare quindi orientata a svolgersi secondo binari piuttosto regolari.
A poco a poco, però, non appena l’analisi comincia ad entrare nel vivo compaiono alcuni elementi fuori del comune, particolarmente apprezzabili a livello controtransferale.
Si tratta della ripetizione, nella dinamica transfert-controtransfert, di quelle protezioni fuori del comune, (Judith Mitrani, Ordinary People and exrtraordinary Protections 2001) di quelle difese straordinarie, messe a punto in periodi della loro vita quando la consapevolezza dell’evento traumatico avrebbe costituito un rischio per il mantenimento dello status quo o avrebbe messo in pericolo la loro stessa sopravvivenza.
Intendo qui descrivere lo sviluppo in alcuni pazienti di una barriera difensiva relazionale abnorme, fuori del comune, appunto, di difese schizoidi o maniacali, del costante e protratto abuso dei meccanismi di scissione, negazione e proiezione, che si attivano però solo in seguito allo sviluppo di una relazione intima con un oggetto, relazione che è stata spesso evitata e da cui sono spesso scappati, per proteggere appunto se stessi e l’oggetto da un potenziale collasso.
Tali difese sono la risposta a traumi subiti ma non immediatamente percepiti come tali dai pazienti e soprattutto dall’ambiente circostante, traumi caratterizzati da trascuratezza emotiva e fisica, separazione dalle figure di riferimento, violenze e prepotenze verbali reiterate, esposizione protratta a gravi depressioni, ad aspetti paranoici o ad altre patologie dei genitori o delle figure di riferimento (ad esempio gravi ed invalidanti patologie fisiche), continue distorsioni delle competenze emotive o cognitive da parte degli oggetti primari, ed altri ancora. Sono esperienze traumatiche meno appariscenti dei traumi rappresentati da abuso sessuale o fisico o dall’esposizione a gravi scene di violenza, e come tali si sono sviluppati con scarso riconoscimento della loro natura traumatica da parte del paziente e soprattutto dell’ambiente circostante (Russell Meares, Intimità e alienazione 2000).
A volte questi traumi si sono verificati in periodi della vita in cui l’esperienza traumatica non era rappresentabile, quando cioè la memoria esplicita non si era ancora costituita, ed in tal caso abbiamo a che fare con una memoria emotiva ed affettiva che comunica le sue tracce mnestiche attraverso il canale percettivo sensoriale. A volte invece le esperienze traumatiche, iniziate magari in età precoce si sono però protratte a lungo ed hanno lasciato chiare memorie nel paziente, che però non sopporta l’esposizione a questi ricordi. A volte invece la qualità traumatica dell’esperienza è completamente sfuggita all’attenzione e la sofferenza, o meglio la difesa dalla sofferenza si è sviluppata soprattutto attraverso i meccanismi della negazione e della scissione, difese primitive riattivate per l’occasione.
Scopo di questo lavoro è rappresentare, attraverso alcune vignette cliniche, la comparsa nel transfert degli elementi traumatici, cioè la loro riattualizzazione nella relazione con l’analista, elemento a mio parere essenziale perché questi elementi traumatici possano essere compresi e trasformati.
Ciò che differenzia questi pazienti da altri ugualmente traumatizzati è lo svolgimento in due tempi dell’analisi: un primo tempo rivolto all’accoglimento e alla comprensione di fattori più superficiali, ed un altro, a mio avviso quello più importante, rivolto a quegli elementi traumatici profondi che diventano accessibili solo dopo lo sviluppo di una prima fase di accoglienza e di esposizione ad un ambiente costante ed emotivamente sintono come è appunto la situazione analitica. La possibilità di differenziare gli elementi transferali e controtransferali del presente della situazione analitica dalle esperienze del passato può avvenire infatti solo dopo che si è prodotto un modello relazionale differente, caratterizzato appunto da attenzione, comprensione e soprattutto da un attento uso del tempo e dello spazio. Sottolineo particolarmente questo ultimo elemento perché una costante di tutti questi pazienti sembra essere stato un continuo abuso ed ingerenza nel loro tempo e nel loro spazio.
Se noi pensiamo che solo attraverso la riattualizzazione dell’esperienza traumatica precoce nel transfert possano svilupparsi processi trasformativi, tali da interrompere la catena traumatofilica, dobbiamo esercitare un’attenzione particolare allora a quelli elementi psiconsensoriali e non solo verbali in senso stretto che si sviluppano nel corso della seduta. Il lavoro profondo dell’analisi con questi pazienti deve svolgersi quindi con una attenzione particolare ai micro fenomeni, alle microfratture dello spazio e del tempo del setting nel corso della seduta.
Per tendenza traumatofilica si intende il concetto secondo il quale alcuni pazienti tendono a ripetere continuamente vicende traumatiche , nella vana speranza di poter arrivare a risultati diversi. Così l’esperienza traumatica diventa l’organizzatrice di tutta la vita mentale, nonché fonte di esperienze che man mano si ripetono sempre uguali.