Era nel cinema, dove le porte
S’aprono e chiudono continuamente.
A quel rumore ella pensò
Ch’egli tornasse;
ma non tornò.Sandro Penna, (1957-1965)
Mi piace iniziare così questo capitolo, con questa poesia. E cioè iniziare direttamente al cinema, dentro la sala, “dove le porte s’aprono e chiudono continuamente”. Quanti amori abbiamo vissuto su quegli schermi e dentro quelle sale? Quanti appuntamenti d’amore sono iniziati con un: “Potremmo andare al cinema?” Quante storie si sono svolte al buio delle sale cinematografiche, un occhio sullo schermo e un occhio all’amato, strettamente avvinghiati nel buio protettivo della sala? Ma poi l’occhio non abbandonava lo schermo, e si alternavano languidi baci e rapite immersioni in storie memorabili, in scene indimenticabili. La vita al cinema, il cinema nella vita, l’amore per il cinema, l’amore al cinema, l’amore sullo schermo, gli amori furtivi, quelli clandestini, quelli appena iniziati, quelli che finiscono, sentire dire sullo schermo ciò che non si riesce a pronunciare, essere al cinema con la persona giusta, capire che sei al cinema con la persona sbagliata, piangere a dirotto su storie d’amore sullo schermo più vere della realtà e piangere al cinema su storie d’amore finite che nessun film riuscirà mai a raccontare…. Tutto ciò risuona nella stanza d’analisi in un gioco continuo di specchi e di rimandi, di porte che si aprono o si chiudono per sempre; che nostalgia, che rimpianti per quando il cinema era tutto un mondo e noi “lieti e pensosi il limitar di gioventù” salivamo!
Ritorniamo adesso, direttamente dalla sala cinematografica, nella stanza d’analisi.
Il dialogo tra cinema e psicoanalisi peraltro sembra essere oggi particolarmente vivace e intellettualmente stimolante, e i rapporti tra le due discipline si stanno sviluppando con uno scambio sempre più denso e complesso. Le storie narrate al cinema rendono possibili le identificazioni dei singoli individui con destini collettivi più ampi, contenuti all’interno della narrazione cinematografica. La storia, individuale e unica del protagonista, permette allo spettatore di proiettare sullo schermo differenti aspetti di Sé. Lo schermo cinematografico diventa allora uno specchio speciale, dove le tragedie passate vengono rilette alla luce della prospettiva presente e attuale. Il cinema possiede, infatti, questa capacità specifica e unica di essere testimone del passato ma anche di portare avanti un messaggio per il presente e il futuro, grazie alla sua particolare temporalità. Il cinema ha sempre offerto una straordinaria opportunità di elaborare le perdite traumatiche quando uno le incontra sullo schermo, “a distanza di sicurezza”. Così possiamo permetterci nuovi significati per vecchi ricordi ed esperienze.
Ho scelto di commentare in questo capitolo quattro film, due classici, che ho già citato in precedenza e due abbastanza recenti, nei quali le passioni d’amore vengono declinate in modo al tempo stesso originale e tradizionale. Originale è lo stile di ciascun film, tradizionale la storia, nelle quali si intravedono spezzoni dei capitoli precedenti.
Nel commentare i film, alternerò considerazioni sul linguaggio cinematografico ad altre più specifiche di teoria e clinica psicoanalitica.
Les amants
Les amants è un film di Louis Malle del 1958 con Jeanne Moreau e Jean-Marc Bory.
La trama del film è molto semplice:
Una signora borghese di provincia, snob ed annoiata, inserita in un matrimonio ricco soprattutto di ritualità e impegni sociali, amante di un dandy parigino, scopre all’improvviso l’amour fou grazie a un giovane incontrato per caso in viaggio e abbandona per lui il tetto coniugale.
Abbiamo visto come al cinema l’amore sia il soggetto dei soggetti, particolarmente là dove l’aspetto carnale è indissociabile dai sentimenti. Louis Malle ha realizzato il film che tutti portano in cuore e sognano di realizzare: la storia minuziosa di un colpo di fulmine, il bruciante “contatto di due corpi” che solo più tardi apparirà come lo “scambio di due fantasie”.
François Truffaut, a torto o a ragione, sosteneva che in questo film Malle avesse osato un’impresa mai tentata prima, rappresentare al cinema un’intera notte d’amore. Per esprimere la piena di sentimenti nel corso della lunga scena, mentre i due amanti vivono il loro idillio nell’incantevole campagna illuminata dal chiaro di luna, il regista sceglie come colonna sonora l’“Andante ma moderato” del Sestetto in si bemolle op. 18 di Brahms. Malle aveva intuito che lì vi era depositato un grumo di sentimenti erotici e sentimentali inesprimibili a parole. Quando il film esce, nel 1958, suscita molto scandalo in Francia, al punto tale che si cerca di proibire la sua uscita e di impedirne la selezione al Festival di Venezia (dove poi vincerà il Leone d’argento). Negli Stati Uniti il film va incontro a una lunga serie di processi che avranno come risultato un pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1964 che precisa cosa si debba ritenere “pornografico”.
Louis Malle disseziona nel film il microcosmo borghese della provincia francese, come aveva a suo tempo fatto Balzac a livello letterario, con un marito troppo impegnato nel lavoro, e un amante troppo sospetto di approfittare della situazione e di non essere davvero invaghito di Jeanne Moreau. Ma l’aspetto romantico e sensuale, che scatena le ire dei benpensanti, è nella seconda parte del film, con campi lunghi tra la nebbia, corpi che si appoggiano mollemente l’uno all’altro, e addirittura un abbozzo di una scena di nudo (senza reggiseno!) vista di profilo. Più di 50 anni dopo la sua uscita, la visone del film decisamente non suscita più scandalo, e si fatica anzi a cogliere gli elementi della polemica. Rimane un film molto bello, un po’ datato, ma ugualmente un film d’autore, con una spettacolosa Jeanne Moreau che ride di gusto, straordinariamente erotica, al di là della scena d’amore che spostò per sempre l’asticella del comune senso del pudore.
Per l’opinione pubblica di allora era, infatti, impensabile accettare che una donna agiata, colta e ragionevole, decidesse di rinunciare al suo ruolo di moglie e madre per andare incontro ad un futuro del tutto incerto in nome di una notte di passione. Mentre la voce narrante nell’ultima scena dice: “Aveva paura, ma non rimpiangeva nulla”, vediamo l’auto con i due amanti che se ne va verso il futuro.
Lo presento qui per due ragioni. La prima riguarda il concetto di morale, che si modifica seguendo i tempi, e che come psicoanalisti dobbiamo sempre tenere a mente, là dove ci scatta dentro un ribollire moralistico nell’ascolto del paziente. La seconda perché offre una soluzione narrativa alla passione, all’amour fou, che non è l’inevitabile morte di Madame Bovary & C. ma un camminare verso un futuro incerto, comunque preferibile ad un presente privo di passione e sentimento.
Al di là dei contenuti, mi preme riprendere, di questo film, l’aspetto di reiterazione quasi ossessiva della passeggiata notturna, che così tanto aveva colpito Truffaut. Ho detto più sopra come la ripetizione rappresenti una cifra stilistica degli elementi romantici e passionali, un elemento ossessivo, che richiama l’ossessione che prende quando si è invasi dalla presenza dell’amato. Si tratta di un qualcosa assolutamente inesprimibile a parole, ma che occorre tenere bene a mente, perché non è raro che nella stanza d’analisi si assista, per fortuna, allo sbocciare di passioni amorose, che faticano in genere ad essere colte, nella loro natura pura e semplice, dall’analista, abituato tutto sommato a parole, a sentimenti espressi attraverso le parole, ragionevoli e pacati, in fondo, non a colpi di fulmine, o a notti nebbiose. Ancora una volta penso che sia sempre meglio restare sospesi, in attesa, con un ascolto partecipe, che non smorzi la passione, ma non riduca in ceneri l’analisi. Il risveglio libidico, che questo film di Malle intende descrivere, accade di sovente. Accade soprattutto là dove l’analisi sta funzionando nei suoi aspetti trasformativi, nell’addolcire repressioni e difese irrigidite dal tempo. I pazienti possono e devono essere in grado di dire in analisi, come Jeanne Moreau: “Aveva paura, ma non rimpiangeva nulla”, e sentirsi sostenuti dall’analista nel procedere verso un futuro incerto, ma con una solidità interna mai provata prima. A volte l’analista può essere geloso, o addirittura invidioso di questa felicità e ritrovata libertà del paziente. Può viverlo come un abbandono, un attacco all’analisi. Ma si tratta invece di un prodotto dell’analisi, che ha liberato antiche repressioni e ha permesso lo spiegamento di emozioni e sentimenti non più devastanti per l’Io del paziente.
L’annè derniere a Marienbad
L’anno scorso a Marienbad, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1961, è un film del 1961 diretto da Alain Resnais. La sceneggiatura e i dialoghi sono dello scrittore Alain Robbe-Grillet, dettaglio non trascurabile. I due Alain sono, al momento in cui viene girato film, entrambi esponenti della Nouvelle Vague. Il film, che si svolge all’interno e all’esterno di un lussuosissimo hotel internazionale, immenso, dalle decorazioni fastose ma gelide, descrive il corteggiamento insistente di uno sconosciuto verso una donna, con ripetute allusioni all’anno precedente, nello stesso hotel, dove si sarebbero già incontrati e avrebbero avuto una storia d’amore. La donna sembra non rammentare l’episodio e lo spettatore stesso non può sapere la verità, né se qualcuno sta mentendo. Le racconta che hanno vissuto un’intensa storia d’amore, e che è tornato a prenderla, per condurla a vivere con lui. La donna risponde di non conoscerlo, e addirittura di non essere nemmeno stata l’anno precedente a Marienbad. “Non potete non ricordarvi! Avete paura di ricordare.” Le risponde con vigore l’uomo, mostrandole una fotografia dell’anno passato. Chi ha ragione e chi ha torto? Che cosa è veramente successo l’anno scorso a Marienbad? Ogni oggetto, ogni stucco di cui l’albergo appare ridondante, ogni dettaglio sono fondamentali in un film asciutto e ridotto all’osso nei suoi dialoghi, tanto quanto è strabordante nelle sue scenografie barocche. Il film è un viaggio simbolico all’interno di uno spazio, quello dell’albergo e dei suoi lunghissimi infiniti corridoi, in un avvicendamento continuo tra passato, presente e futuro, sostenuto dalla presenza di altrettante infinite specchiere, dove si rispecchiano continuamente in un gioco inesorabile i protagonisti. Noi passiamo dalla rappresentazione fintamente realistica del rispecchiamento cinematografico alla confusione di uno spazio dove i protagonisti appaiono prigionieri. Lo specchio che dovrebbe rivelare infatti quello che c’è al di là delle intenzioni dei protagonisti, restituendo allo spettatore un punto di vista parallelo, non dissimile dai giochi di rispecchiamento, di illusioni e disillusioni della pittura barocca, non svolge la sua funzione di rappresentazione, e di restituzione, ma rimandando continuamente ad altri specchi, ad altre sale, ad altri corridoi, descrive un tempo mentale che è sempre e solo presente, dove il passato e il futuro si appiattiscono presentando una sola dimensione, quella interna, del mondo dell’inconscio, che è per definizione a-temporale.
L’immaginario viene rappresentato nella realtà cinematografica attraverso lo slivellamento dei due piani di rappresentazione: quello reale, e quello riflesso dallo specchio. Nel film la realtà interna è quella riflessa dallo specchio, simultaneamente presente alla realtà esterna collocata davanti allo specchio, che è costantemente asimmetrica nella sua riflessione speculare. In una intervista recente, Giorgio Albertazzi, straordinario protagonista del film, racconta come si sentisse estraniato durante la lavorazione, incapace di capire la trama e il senso di ciò che veniva girato. La sua partner, la sofisticata ed enigmatica Delphine Seyrig, gli disse: “ E’ semplice, siamo degli oggetti.” Questo processo di oggettivizzazione effettuato dal regista ha un effetto perturbante anche sullo spettatore. Oltre agli specchi vi contribuiscono i giardini dell’albergo privi di fiori o di piante, dal nitore geometrico, enfatizzato dal bianco e nero della pellicola, e dall’accento straniero di entrambi i protagonisti (percepibile nella versione in lingua originale, francese). Eppure questo film, che a una prima lettura attuale sembra datato, e lentissimo nel suo svolgimento, nella sua ricerca stilistica così moderna ai tempi in cui venne girato, rappresenta benissimo il senso di straniamento che si ha quando si vive una intensa storia di amore. Il turbamento, il vedere la realtà con altri colori, il sembrare bizzarro che tutto scorra come al solito, quando al nostro interno c’è un tale sconquasso, il restare storditi o imbambolati così spesso richiamato in romanzi e poesie, tutto ciò viene raccolto e tradotto in immagini in questo potente film. Complessivamente nel film lo spettatore è costantemente frustrato nel suo tentativo di cogliere una dimensione reale dei personaggi, una loro affettività o sensualità, scontrandosi con il pervicace progetto del regista di non mostrare nulla di reale, pur facendo vedere continuamente allo specchio la persistente esistenza dei personaggi. E’ allo spettatore che spetta il compito di effettuare la scelta di realtà che desidera. Si sono davvero incontrati l’anno scorso i protagonisti? C’è davvero una storia d’amore passionale tra i due? E il marito uccide la donna o è solo una fantasia? La narrazione dei fatti è un’invenzione nostalgica del protagonista o il richiamo puntiglioso all’amante di una realtà passionale che lei preferirebbe dimenticare?
Le conversazioni e gli eventi si ripetono in numerosi posti, sempre diversi del palazzo, e attraverso una lunghissima serie di piani sequenza nei corridoi lo spettatore partecipa a una continuità mentale della nostalgia che stilisticamente non può che utilizzare la ripetizione. Non diversamente che dal film anche nella psiche umana assistiamo alla ripetizione inesorabile di parole e gesti che ci dovrebbero assicurare della continuità immutabile della nostra passione. La passione è lì per durare per sempre, per tutta la notte, da un anno all’altro, per tutti i corridoi dei palazzi. Noi siamo solo degli oggetti della nostra passione, che, travolgendoci, ci oggettivizza, e ci fa perdere la nostra dimensione di soggetti capaci di scegliere e decidere del nostro destino. Come non siamo padroni delle nostre passioni, non siamo neanche padroni delle nostre memorie e dei nostri ricordi, sembra suggerire il film. A simboleggiare tutto ciò vi è un gioco, che l’uomo e il marito giocano con dei fiammiferi, e che si ripete ossessivamente, con mosse diverse ma sempre con lo stesso esito di partita. (quel gioco divenne ben presto famosissimo tra il pubblico, e si diffuse ovunque). Il protagonista nel film descrive all’amata come era stata la loro relazione l’anno precedente nel medesimo albergo, le suggerisce ricordi ed emozioni, che possono o meno essere davvero esistiti. Ma nella realtà emozionale di ciascuno di noi, sappiamo benissimo come i ricordi degli amori passati non sono mai uguali nella coppia. Chi continua ad amare, chi mantiene la persistenza nel cuore della memoria dell’altro, ha tracce mnestiche molto più dense e robuste di chi ha disinvestito per sempre da quell’amore. E strazianti appaiono i dialoghi tra gli ex amanti: “Ti ricordi? Ma come, non ricordi? Com’è possibile? Tu eri lì, e hai detto, e io ti ho risposto e allora.. E ricordi quella volta in treno? E Roma? Ma come, neanche Roma ricordi?”. In francese, e in inglese si dice par coeur o by heart, col cuore, per dire “a memoria”, ponendo la sede dei ricordi nel cuore. In realtà si ricorda ciò che ha lasciato traccia nei nostri cuori. Il trailer del film è molto esplicito a proposito: “Sarete voi stessi al centro di questa storia d’amore, come non ne avete mai viste. Vedrete cose che non avete mai visto, immagini che non avete mai incontrato sugli schermi; ma che forse avete vissuto nella vostra vita.”.
La passione amorosa è descritta con uno stile ardito, che colpisce al cuore come nella scena ripetuta nel film di un gruppo di uomini che si gira e spara al cuore di sagome di cartone.
Il film ha fatto scuola, ed è diventato nel giro di breve tempo un film di culto, un cult movie, nonostante l’iniziale scarso successo di pubblico. Chi l’ha visto non riesce a dimenticare i lunghi corridoi, le infilate di specchi, le geometrie dei giardini. E’ lo spazio enorme del film in cui ci si perde continuamente. È il luogo e il tempo dell’amore, eterno e interscambiabile.
Two Lovers
Two Lovers, film del 2008 del regista James Gray, si svolge a Brighton Beach, Brooklyn, ultima appendice di Coney Island, una delle spiagge più famose di New York, quartiere abitato in grande maggioranza da immigrati ebrei di prima seconda e ormai terza generazione, soprattutto russi. Di fatti il regista, che appartiene a questo milieu, ama girare nella sua Little Odessa questi film dove appaiono rappresentati questi ebrei europei, con i loro riti e le loro appartenenze. Non tutto è esplicitato nel film, che anzi ha nel non detto buona parte del suo fascino. Per esempio l’accenno alla malattia genetica di Tay Sachs, cerebrosidosi genetica ereditaria rara, patologia che è circa cento volte più frequente negli ebrei Ashkenaziti che nelle altre popolazioni mondiali, e che ha impedito le nozze con la sua prima fidanzata, vicenda che poi conduce il protagonista al tentato suicidio con cui si apre il film. Oppure l’accenno alla lunga ospedalizzazione seguita a questo tentato suicidio. Vedremo insieme questi omissis, questi non detti, che costituiscono parte del fascino del film.
Commento
Potremmo intitolare questo film “La scelta”, oppure “Il bisogno di amare” o “Tra fusionalità e separatezza”, perché sono gli elementi centrali dello sviluppo della sua trama.
Più precisamente tre possono essere gli elementi significativi e rivelatori del film, esempi perspicui, trama e ordito del film e del commento:
L’ambiente urbano dove si svolge, cornice del film, una New York, divisa in due, tra una Brighton Beach popolare, di colore seppia, squallida come possono esserlo le lavanderie automatiche e le scale antiincendio dei film americani, e una Manhattan scintillante e affascinante vista solo in notturno. Tra le due il metrò, con le sue stazioni, le sue gallerie, la sua sopraelevata. Da notare per esempio, per capire la differenza abissale tra i due mondi, la scena in cui Leonard, il protagonista, esce dal metrò con Michelle e vede che lei sale su di una opulenta limousine nera, con la portiera aperta dall’autista. Altro esempio sono le fotografie bellissime fatte da Leonard, nelle quali rappresenta tutto lo squallore urbano circostante, in contrasto con le altrettanto bellissime foto del Barmitzvà, prive però di un qualunque sfondo, solo ritratti di persone felici.
Il contrasto continuo nel film tra gli aspetti claustrofilici e quelli agorafilici, rappresentati i primi dall’appartamento dei genitori di Leonard ricco di ricordi fotografie e oggetti portati dall’Est Europa, denso di quella preoccupazione da Yiddishe momme espressa da una Isabella Rossellini (invecchiata forse più di quanto non lo sia realmente) che spia preoccupata il figlio da sotto la porta chiusa. Bellissima per esempio la scena in cui lui si accorge dell’ombra della madre attraverso le due strisce nel battiporta, e ne teme l’ingresso indesiderato nella stanza. Gli aspetti claustrofilici sono invece da ricercare nelle scene di folla, esterni alla luce del sole, in cui si vede Leonard camminare in mezzo a una moltitudine di persone, tutte diverse tra loro, tutti anonimi personaggi di un’immensa corale metropoli, dove si annullano le differenze degli individui. Queste scene sono sempre delle lunghe carrellate, in cui si fatica a rintracciare il viso del protagonista, ma si sente solo la sua voce, che parla al cellulare. Questo è un esempio di quello che dicevo all’inizio, delle tragedie individuali che si perdono nell’incontro con altre infinite storie collettive.
Infine il bisogno di amare del protagonista, causa innanzitutto del suo tentato suicidio e della conseguente ospedalizzazione e poi in realtà di tutto lo svolgimento del film. Amore che nel film si rappresenta come scelta tra due poli, la bionda e la bruna, l’ariana e l’ebrea, la tragica e inquietante Gwyneth Paltrow, la tranquilla e domestica Vanissa Shaw, l’illusionaria possibile simbiosi con Michelle, la calda e riflessiva e separata esperienza con Sandra. Sandra rappresenta la tensione verso il familiare e il domestico, verso la crescita e lo sviluppo del Sé, dalle esperienze di fuga dell’emigrazione del passato a quelle comuni di integrazione e differenziazione del presente. Michelle rappresenta la fuga da tutto ciò, anche, se possibile, con le droghe, la pazzia condivisa, la teatralità dell’Opera, che tra l’altro è la Cavalleria Rusticana, nel film, con la sua tragica conclusione del triangolo amoroso. Michelle è nata in America, è americana, ma non condivide il Sogno Americano dell’emigrante, bensì appare come Manhattan, luccicante ed esteriore, bellissima e irraggiungibile, ma disperatamente infelice e condannata a prendere sempre le strade sbagliate. Alla fine il protagonista non sceglie tra le due, perché, anche se ha scelto Michelle, subito dopo la perde, nella metafora ben espressa dalle onde dell’Oceano che continuamente si infrangono sulla spiaggia. Onde nelle quali poi ritrova, attraverso i guanti che gli restituiscono il coraggio e il desiderio di tornare a casa, dai suoi, da Sandra, e dalla vita normale.
Rispetto ai primi due elementi quello urbano e la claustrofobia / agorafobia, vorrei citare dei pezzi di un’intervista al regista di qualche anno fa. “Poi c’è questa cosa dell’essere Ebreo… è sempre di mezzo, anche nei periodi della mia vita in cui non mi sentivo ebreo…Questo essere altrove, combinato al desiderio disperato di essere a casa.” “Io credo che i film abbiano molte vite e Sé ed intenzioni. …L’antica ingiunzione ebraica “Ricorda!” è diventata una forza nella mia vita e nei miei film e come tutte le forme di sublimazione è sempre stata lì. Io tento di recuperare il ricordo delle cose passate e in un certo senso sono stato in grado di farlo, con la mia opera.” La sua Little Odessa è popolata da profughi dell’Europa Orientale, che in parte si dispongono come in un teatrino dell’assurdo, pirandelliani Personaggi in cerca di Autore, che bussano alla memoria del regista per trovarvi una rappresentazione/testimonianza della loro passata esistenza. (Vedi fotografie appese al muro) Noi che lo guardiamo diventiamo testimoni involontari di un processo di rimembranza e di consacrazione, a nostra volta fotografi e osservatori delle fantasie inconsce del protagonista.
Noi sappiamo molto bene che il desiderio di fondersi, di essere tutt’uno con l’amato può essere inteso come l’intenso struggimento e rimpianto per la primitiva simbiosi con la madre, anche se questa non ha lasciato alcuna memoria. E’ una brama che non può mai essere soddisfatta in una condizione di amore. Abbiamo visto come Kernberg (1995) sostenga che è necessaria una certa capacità di essere da soli, per potere amare ed essere due. C’è una sottile differenza tra una ricerca autentica per la non dualità e un desiderio sostenuto da fantasie simbiotiche o fusionali. Il desiderio di fondersi con la persona amata può essere una difesa patologica contro la differenza e la solitudine. Certe modalità patologiche di attaccamento insicuro conducono ad identificarsi con l’altro in modo così adesivo che ogni tipo di separatezza e differenza con l’altro viene negata.
Questo è a mio avviso, la situazione patologica del protagonista. Perché di patologia si tratta, ne siamo avvisati fin dall’inizio. Quando Michelle gli chiede aiuto lui si sbilancia: “Sono stato tanto tempo in ospedale e credevo che non mi sarei mai più innamorato in vita mia, invece ti amo. Io ti capisco, io sono proprio come te.” Ma non è vero, perché Leonard non ha mai il coraggio di dire la verità a se stesso. Tranne, alla fine quando trova il coraggio di tornare indietro dalla spiaggia, dopo aver perso Michelle, e di ricominciare con Sandra. Potremmo dire che vi è una rinuncia a una potenzialità che rimane inespressa, a una separazione che resta incompleta. Ma a me sembra che ci sia invece una maturità ed una capacità di cambiamento adulta, nella quale si assiste alla rinuncia a ideali infantili irraggiungibili e pericolosi, in fondo per l’Io del protagonista.
Ferro Tre – La casa vuota
Kim Ki-duk è un autore Sud Coreano molto raffinato, regista di film di sottile poesia, che affrontano temi filosofici e morali, tutti tenuti sul filo di uno stile rarefatto, al limite del formalismo, che ha avuto nell’Occidente un successo di critica e di pubblico notevole.
Con Ferro Tre- la casa vuota, film della piena maturità espressiva, Kim Ki-Duk sembra volere spingere al massimo grado l’uso del simbolo e della metafora come possibilità espressiva e narrativa.
La protagonista, prigioniera in un matrimonio in cui domina la violenza, vive nell’attesa del momento in cui potrà finalmente allontanarsi dal marito e da una casa che non occupa emotivamente, anche se i suoi ritratti ricoprono tutta la superficie delle pareti. E’ incapace però di liberarsi da sola, come spesso accade alle vittime delle violenze domestiche, chiuse in umilianti relazioni claustrofobiche.
La casa riflette questo vissuto: è una casa che attende di essere abitata, anche attraverso piccoli gesti domestici di amore verso gli oggetti e i loro proprietari, come la protagonista attende qualcuno che colmi il suo vuoto affettivo.
E in questa casa vuota si introduce il protagonista, splendida figura di ribelle silenzioso ed oppositivo, novello cuculo che si annida nei nidi altrui, che entra nelle case vuote per abitarle affettivamente, e ricavarne un calore ed una struttura che sembra incapace di costruire da solo per se stesso. Tutto in lui sembra puntare all’essenziale, in un estremo minimalismo, ed il film è la storia di un novello Diogene orientale che con la mazza da golf sulle spalle (il ferro 3 del titolo, la mazza meno usata dai golfisti) si avvia per il mondo alla ricerca dell’uomo.
Uomo che qui viene ricercato nelle sue case, nelle sue abitazioni. In quasi tutto il film assistiamo a situazioni surreali e oniriche che contrastano particolarmente con la quotidianità ripetuta di gesti quasi rituali, come lavare i panni a mano, o riparare gli oggetti rotti, che si ripetono in ogni nuova casa.
Questo bellissimo film può essere usato come chiave di accesso di una casa psicoanalitica, una casa abitata da concetti complessi, per arrivare a capire cosa può significare davvero rappresentare l’animo umano, con le immagini, e perché allora si può parlare di una vera e propria di casa-pelle.
Per Anzieu (1985) “L’Io–pelle è una realtà di ordine fantasmatico: raffigurato nei fantasmi, nei sogni, nel linguaggio corrente, negli atteggiamenti corporei, nei disturbi del pensiero; e nello stesso tempo fornitore dello spazio immaginario costitutivo del fantasma, del sogno della riflessione, di qualsiasi organizzazione psicopatologica….L’Io–pelle è una struttura intermedia dell’apparato psichico…..” (p. 55).
A volte nel linguaggio psicoanalitico si rischia di confondere la realtà psichica con la realtà interna, e credo che questo film sottolinei benissimo la differenza, e lo fa, mi sembra, con grande finezza. E’ straordinario che il regista riesca ad esprimere questi elementi da un vertice assolutamente non – psicoanalitico, ma artistico, il che conferma che la psicoanalisi non ha inventato nulla, ha solo dato un nome a degli aspetti basilari del funzionamento della mente umana.
La realtà psichica è così il regno dove noi riflettiamo su ciò che accade nella nostra realtà interna, sulle sensazioni che percepiamo, sui sentimenti che proviamo. In altre parole, nella realtà psichica si trova la nostra capacità di mentalizzazione delle esperienze sensoriali ed emozionali del mondo interno. Ma per fare questo, per avere una realtà psichica, noi abbiamo bisogno di un qualche tipo di rappresentazione di queste esperienze. Una buona parte del lavoro di un analista consiste nell’aiutare il paziente a creare ed ampliare la sua realtà psichica, cioè lo spazio dove potere rappresentare le sue esperienze interne soggettive: questa attività rappresentativa la chiamiamo capacità di simbolizzazione.
I protagonisti del film sono eccezionalmente del tutto silenziosi, o per restare in tema cinematografico, muti. Il mondo esterno invece ha il sonoro. La prima mossa del protagonista appena entra nelle case, è di attivare le loro segreterie telefoniche, per sapere dove sono gli abitanti, ma anche per dare un sonoro alla casa. Poi inserisce il suo cd, sempre lo stesso, che è la musica della sua casa, il sonoro del suo film.
Non è possibile raggiungere direttamente il mondo interno di quella casa, ma si può cercare di conoscerne la sua realtà psichica, cioè il modo attraverso il quale essa si rappresenta, ed eventualmente modificarla. E così ogni casa ha il suo carattere, e la rappresentazione di questo carattere è percepibile dall’arredamento, dai quadri, dalle piante, dagli abiti, dal cibo nel frigo, dagli abiti da lavare. Ed essendo le case, come dicevamo prima, delle rappresentazioni del Sé in forma simbolica, delle case-pelle, il mondo interno dei suoi abitanti si esprime nella realtà psichica delle loro case.
Così per esempio Kim Ki-Duk trasmette l’immagine di case il cui mondo interno è denso di violenza, e la prima immagine che si vede è il ritratto del proprietario, un pugile, con i guantoni da boxe. Poco oltre sentiremo infatti, a conferma di questa percezione di violenza, il sonoro della coppia che litiga, nonostante l’anniversario di nozze appena passato alle Hawai.
Oppure c’è la bellissima scena del protagonista che in un’altra casa aggiusta la pistola del bambino per colpire dei palloncini per gioco e quando poi ritornano gli abitanti vediamo una famiglia litigiosa, con il bambino che usa la pistola giocattolo aggiustata per sparare, chissà quanto per gioco, in questo caso, ai genitori che litigano.
In definitiva noi entriamo continuamente nel film in contatto con dei simboli, che rimandano a dei sentimenti e a delle emozioni, le quali racchiudono dei significati inconsci.
Nella rappresentazione simbolica il simbolo rappresenta l’oggetto, ma non è totalmente identificato con esso, come invece avviene nella equazione simbolica, dove il simbolo è così identificato con l’oggetto che simbolo e oggetto rappresentato diventano identici. (vedi Segal, 1957 e, più recente, 1991)
Nel film la protagonista coglie al volo il significato simbolico di alcuni gesti che il ragazzo compie nelle case che occupa, come il fotografarsi insieme agli oggetti, o lavare i panni a mano, e li ripete a sua volta, generando un linguaggio condiviso, uno stile, una cultura. Nel film lei diventa la persona per la quale il simbolo acquista un significato.
L’Io e l’oggetto devono essere sufficientemente differenziati per avere una relazione simbolica, altrimenti il simbolo, che è una creazione dell’Io viene confuso con quello che viene simbolizzato, cioè l’oggetto. Per esempio, se io dico: ti voglio avere, non intendo davvero possederti sul serio, ma simbolicamente.
Nel film incontriamo alcuni personaggi, come il marito, per i quali si può parlare in certo senso di equazione simbolica, e cioè di una incapacità di uscire dal pensiero concreto nel quale oggetti e simboli che li rappresentano si equivalgono. A volte la realtà materiale prepotentemente si sovrappone alla fantasia simbolizzata, il simbolo collassa ed è quasi sempre un disastro, come nell’episodio dell’ omicidio colposo compiuto dal ragazzo quando la pallina con la quale finge di giocare a golf si stacca dal suo laccio e va a colpire con tutta la sua forza, uccidendolo, un ignaro ed innocente automobilista di passaggio.
Il ragazzo non vuole possedere niente, ma desidera utilizzare gli oggetti che incontra come simboli che possono dare un significato linguistico alla sua esistenza. La ragazza, che secondo il marito possiede tutto, nella sua realtà psichica non è in grado di utilizzare nessuno di quegli oggetti, di entrare in relazione con loro, perché le sono estranei, sono dei non -oggetti per lei. E’ solo quando lui entra nella casa, e li usa, che acquistano una loro vita simbolica e quindi possono avere un significato per lei.
Vedi per esempio l’episodio della bilancia, che viene modificata fino a segnare non il peso della realtà esterna, ma quello più importante di quella interna, in cui loro due, insieme, sono immateriali, non hanno peso. La violenza che il marito esercita su di lei non è data tanto dalle percosse, di cui porta il segno, quanto dalla mancanza di una rappresentazione simbolica: per lui lei è un oggetto che possiede, una vera e propria equazione simbolica tra il simbolo e la cosa, non è come se lei gli appartenesse, per lui lei gli appartiene, e quando si accorge che non è vero, che non la possiede, perde la testa.
È interessante in questo senso il contrasto con l’altra coppia, quella della casa con i pesci, dove invece entrambi i coniugi appaiono concentrati in attività volte a creare armonia e bellezza intorno a loro. Gli oggetti che usano, come le tazzine da tè, o le piante bonsai, appaiono investiti da amore e attenzione, rappresentazioni simboliche, io credo, dell’amore e attenzione che hanno reciprocamente l’uno verso l’altro e verso il mondo esterno. E’ una casa dove trovare pace, ma anche rispetto.
La formazione dei simboli domina la capacità di comunicare, perché tutte le comunicazioni avvengono per mezzo di simboli. La capacità di comunicare usando i simboli è la base del pensiero verbale, cioè la capacità di comunicare attraverso le parole. E’ anche alla base della capacità creativa artistica, perché il simbolo non è una copia dell’oggetto che rappresenta, ma è qualcosa che viene creato completamente nuovo. Il mondo che l’artista crea è nuovo. Ha a che fare con gli oggetti che racconta, ma il racconto avviene attraverso la loro rappresentazione simbolica, che in quanto tale può sempre essere diversa ed originale, mentre gli oggetti rimangono costanti e persistenti. In un certo senso i simboli sono totalmente frutto della nostra creazione, ma in un altro sono la scoperta di qualcosa che già esisteva e la creatività è l’uso che ne facciamo.
Tornando al film, i simboli che Kim Ki-Duk usa sono condivisi in larga parte dallo spettatore, (anche se sospetto che alcuni possano sfuggire alla cultura occidentale) e se così non fosse il film sarebbe incomprensibile, e perderebbe il suo carattere di comunicazione e di veicolo di messaggio.
Anche nel film, come nella vita, i pensieri – case dei due protagonisti si evolvono durante la loro crescita.
Pensare significa tenere insieme, fare stare in piedi, come si dice colloquialmente. Pensare è raddrizzarsi appoggiandosi ad una base solida: l’emergere del pensiero richiede una stabilità, che richiede un sostegno, così come accade quando si erigono le case.
La capacità riflessiva della nostra realtà psichica si arricchisce con il passare del tempo: costruiamo nuove relazioni, più complesse, elaboriamo compromessi; sopportiamo l’ambiguità, coltiviamo la capacità di sopportare l’odio e l’amore.
La nostra capacità di pensiero simbolico cresce con noi, e permette di coltivare illusioni che coesistono accanto alle nostre realtà sempre più complesse.
Nel film i due protagonisti smettono di cambiare casa di continuo, e si assestano in un compromesso che è surreale, ma che contiene un nucleo di verità assoluta proprio nell’essere un compromesso: è quello che Anzieu chiama il passaggio dall’Io pelle all’Io pensante. E che noi possiamo pensare come un passaggio da un Io – casa – pelle, effetto del narcisismo primario primitivo a un Io -Tu più adulto, che raggiunge la capacità di simbolizzazione dell’oggetto, proprio perché ha raggiunto la capacità di separazione e distinzione del soggetto rispetto all’oggetto.
Nel film assistiamo ad un’altra vicenda, interessante non solo per la clinica psicoanalitica, ma anche per i suoi aspetti di attualità sociologica e antropologica. Mi riferisco alle fantasie di invisibilità, spesso centrali nelle storie d’amore di individui timidi e repressi.[1]
Nel film il protagonista tende all’invisibilità, tende a diventare un fantasma, presente solo nella mente di coloro ai quali vuole apparire. Spesso gli abitanti delle case percepiscono la sua presenza, da alcuni segni, un cuscino spostato, un manifesto scomparso. In realtà il più delle volte sentono la presenza di qualcuno, una presenza invisibile, che l’occhio umano non può vedere.
È un elemento che si esprime molto distintamente nella scena della cella della prigione, quando cerca di scomparire in tre metri quadrati, e disegna alla fine un occhio sulla sua mano, per cercare di essere visto solo da un occhio simbolico, non da un occhio reale.
Le fantasie di invisibilità esprimono il desiderio, ma anche la paura di non essere visti o conosciuti. In un certo senso sono delle difese al terrore di essere esposti, di mettersi alla prova (non a caso il protagonista non costruisce mai una casa sua, ma si limita ad occupare le case degli altri).
Queste persone temono che non ci sia spazio per loro nel mondo e fantasticano di scomparire o di controllare il modo in cui si viene visti.
In tal modo però pur mettendosi al riparo da ogni possibile minaccia di castrazione che deriva dall’essere visti, rendendosi invisibili si isolano dagli altri[2].
Le fantasie di invisibilità sono strettamente connesse all’angoscia di castrazione. (Rangell, 1991) Per Freud l’angoscia di castrazione nasceva dalla paura di ritorsioni per la competizione, sessuale e non, con il padre riguardo alla madre (Freud, 1922,1924,1925).
Da questo punto di vista, possiamo anche avanzare una lettura strettamente freudiana del film, mostrando il protagonista alle prese con una vicenda edipica che lo mette in grande difficoltà. Non riesce infatti ad affrontare direttamente il padre (qui rappresentato dal marito violento della ragazza), anche se all’inizio lo sfida su di un terreno dove pensa di essere più forte, il golf, ed originale (usa un ferro, il ferro tre, poco usato dai golfisti).
Si dimostra però inesorabilmente perdente nel confronto all’aperto con i parametri socialmente riconosciuti, ricchezza e potere.
Il protagonista, muto, non si esprime, e non esprime desideri di possesso. Non possiede nulla, solo una pallina da golf. Il marito, al contrario, è palesemente ricco, e arrogante nell’esibizione del suo potere.
Lo scacco edipico iniziale nel film favorisce però la trasformazione nel protagonista di una spinta anarchica/nichilista in una scelta orgogliosa di diversità, in un rifiuto del consumismo e del possesso, in un ritorno alle tradizioni del passato (come nell’episodio della sepoltura dell’anziano trovato morto in una delle case occupate abusivamente), con un crescendo di risignificazioni simboliche che trasformano l’emarginazione in scelta autonoma creativa e alternativa.
Le fantasie di invisibilità esprimono infatti anche il rifiuto di apparire come gli altri (i genitori, gli insegnanti, la società) vogliono che tu sia.
La paura di quello che gli altri possono vedere di te però può rinforzare le difficoltà di relazione con il mondo. Nel film il protagonista non parla mai, è muto, non si difende nemmeno quando viene accusato di omicidio. Ma non parla e rimane muto anche quando dovrebbe denunciarsi per omicidio, quando cioè, lanciando la pallina da golf, colpisce la donna seduta nella macchina. Sfuggendo alla violenza, cercando di rendersi invisibile, finisce poi per creare a sua volta un’altra violenza, frutto della sua incapacità di esporsi.
L’angoscia di apparire ha a che fare con la paura di essere esposto e conosciuto, e viceversa la coazione ad apparire a tutti i costi, così frequente nella nostra società, può essere legata al bisogno di controllare ciò che gli altri vedono di noi.
La paura di essere visti può nascondere la paura di essere capiti, avvicinati, amati, a prescindere dal nostro controllo. Un grave trauma può dare origine a intollerabili esperienze di vergogna ed impotenza. Noi non sappiamo perché il protagonista voglia rendersi invisibile, cosa sia accaduto nella sua vita. Certo sappiamo che ha conosciuto la violenza, perché la esercita e ne rimane vittima. In analisi noi sappiamo che le persone che tendono a rendersi invisibili sono in fuga da sentimenti di dolore e di vergogna. Nascondendosi non rischiano di incontrare ancora la sofferenza. Ma così facendo rinunciano ad amare e ad essere amati, come abbiamo ben visto nel corso di tutto il libro.
Il finale del film è stupefacente. Il protagonista riesce a trionfare nella sua scelta di invisibilità, scegliendo di apparire ed esistere solo per la ragazza, aggirando continuamente l’esistenza del marito. I suoi movimenti ricordano la danza, i movimenti dei mimi, l’antico teatro giapponese. Inserendosi nuovamente nel mondo altrui questa volta sceglie di vivere non più in solitudine, ma sempre visibile solo per chi decide lui.
Possiamo pensare che le capacità creative permettano al protagonista di inventare un mondo diverso, situato in una realtà fantasmatica, condivisa con un’altra persona, presumibilmente all’origine infelice e traumatizzata come lui.
Questa capacità creativa gli permette, a mio avviso, di trovare una soluzione originale al conflitto edipico, un compromesso che lo protegga dall’angoscia di castrazione. Non compete con il padre nel suo mondo perché, come il bambino edipico, è solo destinato ad essere sconfitto.
Invece, winnicottianmente, inventa un altro mondo, (Winnicott, 1971) nel quale può trionfare sul padre per il possesso della madre, ed affermare la sua superiorità spirituale e morale.
Tornando a Freud, i due protagonisti ricominciano ad amare per non ammalarsi, ed amandosi, rientrano nel mondo nel quale si erano resi invisibili.
Si può obbiettare che rimane comunque un mondo fantasmatico, che quella casa, quello spazio rimangono non suoi, che egli sembra non riuscire a costruire uno spazio tutto per sé.
Mi sembra che questo finale, stupefacente, come dicevo prima, sia particolarmente interessante per noi psicoanalisti, che spesso, durante un’analisi, ci chiediamo che tipo di soluzione potrà trovare un paziente ai conflitti che presenta, in che modo la sua coazione a ripetere potrà modificarsi e produrre trasformazioni delle difese più adeguate alle esigenze pulsionali e alle istanze superegoiche.
Il protagonista, giocando con la realtà, produce un ambiente –casa che lo esprime e lo rappresenta al meglio, e si dimostra capace di abitare lo spazio che occupa più del suo legittimo padrone.
La soluzione creativa che elabora trasforma quello spazio opulento e volgare, triste per chi vi abita, in un ambiente delicato e poetico, che restituisce il sorriso ai suoi abitanti, e bonifica le violenze che vi si svolgevano.
Alla fine, anche il padrone legittimo ritrova, in questo spazio bonificato, il sorriso e la felicità. Si tratta di una soluzione frammentaria e parziale, diciamo pure provvisoria, come credo sia nelle intenzioni del regista. Possiamo anche definirla aperta, o insatura, e in quanto tale, come compromesso provvisorio tra le varie istanze psichiche, può permettere futuri sviluppi, lasciati aperti nella mente dello spettatore.
Vorrei concludere ricordando come già nel 1986, in un bellissimo articolo Betty Joseph suggeriva di considerare il cambiamento psichico non solo come cambiamento duraturo e di lungo termine, cioè una sorta di stato finale di permanente stato di benessere, bensì come un cambiamento momento dopo momento “considerando i metodi propri individuali di ogni singolo paziente di affrontare e trovare soluzioni alle proprie ansie e alle proprie relazioni nel suo singolo, unico modo”.
(Joseph, 1986, p.192).
Il simbolismo e la fantasia inconscia possono infatti essere usati per evitare il contatto con la realtà esterna, (Steiner, 1993; Parsons, 2000), ma sono anche essenziali per stabilire con essa un rapporto vivace e creativo, e per trovare soluzioni originali a vicende amorose altrimenti impossibili da districare.