L’arte degna di questo nome non rende il visibile,
ma dissuggella gli occhi sull’invisibile.Paul Klee, Confessioni sulla creatività, 1920
In precedenti lavori una delle autrici aveva cercato di richiamare il concetto di creatività artistica, come elemento esplicativo, risolutivo e trasformativo di istanze del profondo, correlandolo al concetto di identità, e formulando poi alcune ipotesi relative allo sviluppo della creatività all’interno della necessità riparativa di elementi del Sé.
Sottolineavamo allora come molti artisti abbiano esplicitamente ridefinito e riposizionato la loro identità in relazione allo sviluppo della loro esperienza artistica. Le loro ricerche e scoperte relative ad ambiti più specifici della loro identità sono spesso derivate da nuove esperienze artistiche, le quali a loro volta hanno prodotto ulteriori ampliamenti dei confini del Sé. Tali esperienze non riguardano solo il mondo interno ma offrono anche interpretazioni originali ed interessanti della società in cui vivono.
Creatività: rassegna della letteratura psicoanalitica
Gli psicoanalisti sono stati fin dalle origini della psicoanalisi affascinati dallo studio della creatività artistica e della personalità degli artisti, soprattutto in relazione alla espressione della loro identità. Freud per primo è sempre stato affascinato dall’arte; e le sue scoperte sulle fantasie inconsce e sul simbolismo hanno permesso nuove prospettive e approfondito le nostre conoscenze di quella “suprema espressione simbolica della fantasia che è l’arte” (Segal, 1991)
Freud e gli altri autori immediatamente seguenti hanno considerato la creatività artistica come un aspetto del funzionamento mentale molto simile alla formazione dei sogni. E hanno spiegato come la creatività artistica, allo stesso modo dei sogni, derivi dal lavoro inconscio sui residui delle esperienze diurne, soprattutto quelle represse.
Dobbiamo ad Ernest Kris i primi fondamentali studi della moderna teoria psicoanalitica dell’arte.
Anche Kris come già Freud parte dal confronto tra lavoro del sogno e lavoro dell’arte, ma sottolinea come il rapporto tra Io ed Es non comporti solo i compromessi tra queste due istanze, ma anche la relazione tra processi primari e secondari. Tale relazione nel lavoro dell’arte apparirebbe rovesciata, nel senso che ciò che nel sogno ha l’aspetto di un compromesso e di una sovradeterminazione, nel lavoro artistico invece appare come una molteplicità di significati, importanti ai fini dell’obiettivo estetico finale. L’Io si troverebbe quindi a controllare il processo primario per ottenere un’espressione artistica soddisfacente alle necessità espressive dell’Es. (Freud parlava a tal proposito della “flessibilità della rimozione” negli artisti).
L’approccio Kleiniano all’arte tende invece ad enfatizzare un processo di autoterapia più sistematica nel quale si lavora sui conflitti infantili profondi collegati agli oggetti interni.. Coerentemente con la loro teoria, i Kleiniani credono che si debba pensare all’artista come a colui che rappresenta il continuo processo delle relazioni tra i suoi oggetti interni e tutte le vicissitudini di attacco e riparazione. E’ attraverso la percezione che il proprio mondo interno è scosso ed alterato che l’artista giunge alla necessità di ricreare qualcosa che percepisce come un mondo completamente nuovo. E questa necessità riparativa è, per i Kleiniani, all’origine della creatività.
La filosofia estetica si è a tratti nutrita di concetti psicoanalitici, (vedi per es. Wollheim) ma anche gli psicoanalisti sono spesso ricorsi ad esperienze ed intuizioni artistiche, oltre che alle esperienze cliniche per meglio rafforzare le proprie costruzioni teoriche.
Con questo lavoro intendiamo approfondire l’aspetto di ricerca nello sviluppo nell’esperienza creativa artistica, provando ad attingere anche ai più recenti studi di neurobiologia, specificatamente neuroestetica, e ad alcuni sviluppi della filosofia estetica contemporanea.
Intendiamo partire da uno studio più sistematico sui rapporti tra idea, esecuzione ed opera d’arte, e suggerire come la psicoanalisi, oltre che utilizzare gli strumenti a lei specifici per interpretare i processi creativi, possa utilizzare alcuni studi recenti sulla rappresentazione artistica per comprendere alcune modalità di funzionamento della rappresentazione simbolica della realtà psichica.
Il lavoro è diviso in due parti.
La prima cerca di analizzare in profondità lo sviluppo artistico di un grande scultore e pittore del ‘900, esponente di punta dell’astrattismo italiano, Franco Garelli. La ricerca e lo sviluppo della sua esperienza artistica verso la raffigurazione astratta viene letta in filigrana rispetto ad alcuni elementi biografici e soprattutto rispetto alle sue necessità di ricerca espressive e di definizione di nuova identità artistica, in sintonia con le tensioni culturali e spirituali del suo tempo.
La seconda parte cerca invece di illustrare come si possono attivare durante l’analisi aspetti creativi, con un percorso di scoperta, costruzione ed invenzione che in parte può richiamare i nuovi linguaggi dell’arte astratta. Si può così riuscire a riconfigurare l’esperienza analitica con l’integrazione di nuove esperienze rappresentative ormai ampiamente diffuse nell’immaginario collettivo. Per parafrasare Klee, non si tratta solo di rendere visibile la realtà psichica, ma soprattutto di permettere di condividere l’invisibile, ovvero quelle esperienze interne che non riescono a venire espresse e comunicate attraverso la mimesi figurativa, ma che richiedono una elevata capacità di utilizzo di nuovi strumenti espressivi, come appunto abbiamo assistito nello sviluppo dell’astrattismo.
Origini dell’astrattismo
Agli inizi del secolo scorso le avanguardie artistiche compiono un passaggio decisivo, dall’arte mimetica a quella non oggettiva, o, per usare un termine di più ampia diffusione, dall’arte figurativa a quella astratta. Questo passaggio, per universale consenso degli storici dell’arte e dei filosofi estetici, avviene attraverso due vie apparentemente distinte tra di loro. Una è la via formale, attinente agli aspetti linguistici dell’opera, che porta alle estreme conseguenze le teorie sulla pura visibilità e sull’autonomia dell’arte, l’altra è la via simbolista, che origina dalle tensioni spirituali e ideali contrarie alla pura rappresentazione del fenomeno osservato. Entrambi i percorsi conducono all’astrattismo, negando, come formulazione di base, che l’arte si giustifichi nell’imitazione della natura o meglio, ne“la superficie visibile delle cose” (Worringer, 1908). L’astrattismo fu un fenomeno diffuso negli anni dieci: Delaunay in Francia, Mondrian in Olanda, Kupka in Cecoslovacchia procedevano parallelamente agli astrattisti Russi, su tutti Malevic il fondatore del Suprematismo, dedicato alla ricerca dell’assoluta purezza di forma e di colore. E, sopra a tutti si sviluppava il polo lirico e spirituale di Kandinskij in Germania. Agli scritti di Kandinskij, oltre che alle sue opere siamo molto debitori per la comprensione delle basi teoriche delle avanguardie dell’astrattismo.
L’ambiguità
Ogni artista, nel corso della sua vita, compie un lungo viaggio alla ricerca della propria identità cercando una consapevole integrazione delle parti scisse del suo mondo interno, e un recupero degli elementi transgenerazionali appartenenti al suo passato familiare in senso stretto e agli eventi storici e politici delle generazioni precedenti. Alle radici dell’arte di molti pittori si trova un’apparente contraddizione tra l’esposizione e la confessione di parti private del Sé da un lato e la segretezza e l’ambiguità intrinseca di molti aspetti delle loro opere dall’altro. Da un lato l’artista si concentra su se stesso, riflettendo sui propri procedimenti e sulle funzioni mentali che ne permettono l’operatività, dall’altro, esponendosi nella realtà esterna, la penetra e in qualche modo la modifica. (a proposito vedi Menna, 1975, 2001).
La contraddizione tra l’esposizione all’esterno ed il mascheramento, ottenuto proprio attraverso l’uso del linguaggio fa sì che l’ambiguità risulti un tratto caratteristico comune alla produzione artistica. Semir Zeki nel suo interessantissimo saggio “Neurologia dell’ambiguità” (2004) analizza alcuni fondamenti neurobiologici dell’ambiguità. Per Zeki da un punto di vista neurobiologico l’ambiguità non è una incertezza, ma una “certezza di molte interpretazioni ugualmente plausibili ognuna delle quali diventa egemone quando giunge allo stato di coscienza.” (Zeki, 2004) Il cervello accetta quindi che non vi sia una singola caratteristica, essenziale e costante, ma molteplici. Il modo con cui il cervello è programmato per ammettere diverse interpretazioni si capisce tanto più quanto più appare difficile disfare le percezioni ambigue, in una formulazione invece non-ambigua. In altre parole, il nostro cervello è in grado di percepire l’ambiguità e mantenerla in quanto tale.
Queste ricerche neurofisiologiche rafforzano alcune considerazioni sulla nostra attività clinica e su alcune rappresentazioni dell’arte contemporanea.
Anni fa una mia paziente mi portò, alla prima seduta d’analisi il seguente sogno: era una tavola anatomica, con un utero diviso in due parti: in una vi era contenuto un cancro, nell’altra un feto.
L’ambiguità della rappresentazione, in cui nascita e morte potevano coesistere veniva rafforzata dalla apparente raffigurazione della realtà della tavola anatomica. In realtà si trattava di una sua personale rappresentazione della sua anatomia, del suo corpo e del suo mondo interno, diviso tra Eros e Thanatos. Avevano a che fare con rappresentazioni contrapposte di sé: l’una come creatrice di vita, l’altra come contenitore di morte. Come abbiamo visto prima il cervello umano, ma anche la realtà psichica, può contenere, sopportare e rappresentare l’ambiguità. Non essere in grado di fare queste operazioni significa non permettere nel corso dell’analisi uno sviluppo parallelo di vicende contrastanti. Nell’analisi che stava per cominciare potevamo partorire un bambino insieme, o sviluppare un tumore. Questa prima lettura del sogno, così interlocutoria, permise nel corso dell’analisi lo sviluppo della possibilità di conoscenza e di accoglimento di entrambi le parti; non sarebbe stato infatti possibile ignorare l’una scegliendo l’altra. La capacità di accogliere e tollerare anche a lungo l’ambiguità permette al paziente di accedere meglio ai propri processi inconsci e di sviluppare i propri percorsi creativi.
In numerose opere di arte moderna l’ambiguità, ovvero la possibilità di ammettere diverse interpretazioni, tutte ugualmente valide domina sovrana e contribuisce a generare nell’osservatore quel senso di complessità e profondità che nasce anche dal coinvolgimento di numerose e complesse funzioni psichiche (felicità e tristezza, divertimento e paura, ecc. ecc.)
La memoria e il frammento
“Che il tuo proprio Sé sia vero” (“To thine own self be true”) dice nell’Amleto Polonio salutando il figlio che si appresta a partire. Shakespeare dimostra così di conoscere bene l’aspetto di augurio della ricerca di Sé che ogni viaggio comporta. Ogni percorso artistico analogamente ad un percorso analitico è anche contemporaneamente un viaggio all’indietro, nelle memorie del passato. Ciò che la memoria e il ricordo hanno in comune con l’arte è il dono della scelta, il gusto del particolare, come sottolinea Brodskij, osservazione che può sembrare lusinghiera per l’arte, ma non per la memoria. La memoria infatti contiene solo particolari, non il quadro completo, mentre l’arte invece riesce a esprimere il quadro completo proprio soffermandosi sul particolare.
Tutta la conoscenza è memoria. Senza memoria non sarebbe possibile sviluppare lo spazio creativo e fantastico, perché come dicono anche i neurologi tutti gli eventi mentali alla base del pensiero al momento della loro trasformazione in linguaggio entrano a fare parte del passato e quindi della memoria (vedi, tra gli altri Maffei, 1998)
Come psicoanalisti possiamo dire che è la funzione integratrice dell’Io che permette l’abbinamento tra aspetti regressivi inconsci ed esperienze creative di elaborazione del materiale rimosso. Nel processo creativo avviene, infatti, una presa di coscienza del materiale inconscio ed una sua trasformazione in un evento artistico condivisibile a molti livelli.
A Maria, alcuni anni dopo la fine dell’analisi, viene diagnosticato un cancro al seno. Mi viene a trovare e mi racconta che ha iniziato a frequentare il centro di arte terapia al day Hospital dell’Ospedale dove è stata operata. Per numerose settimane, due ore alla settimana, si scopre immersa nella elaborazione di un enorme collage, il cui significato non le sembra all’inizio rilevante. E’ solo alla sua terminazione, qualche settimana dopo, che le appare chiaro che si tratta di una autorappresentazione, frammentata e amputata, nella quale accosta insieme elementi perduti del Sé (il seno) e elementi nuovi che le sono indispensabili (i farmaci antitumorali). Il collage così costruito presenta aspetti interessanti. Il seno rifatto assomiglia piuttosto ad un vulcano (le parti di sé infuriate, arrabbiatissime e pronte ad esplodere), che doveva tenere a bada mentre era impegnata a curarsi. Un altro collage rappresentava un torso, attraversato da continue linee (le cicatrici degli interventi chirurgici) e faceva venire i brividi a vederlo. La paziente non aveva particolari attitudini creative, né particolari interessi artistici. Solo, mi raccontò che riusciva così ad esprimere ciò che non sarebbe stata capace di fare a parole, a rappresentare potentemente la frammentazione a cui era andato incontro il suo corpo. Mi disse che l’analisi le aveva permesso di accettare gli aspetti frammentati e confusi di Sé, e che poteva aspettare a rimetterli insieme. “Sono stata abbastanza fortunata da poter avere il sostegno, la capacità e il setting per indirizzare le sofferenze a cui andava incontro il mio corpo verso delle rappresentazioni visive, a volte anche tridimensionali, che hanno avuto una immediatezza più forte delle parole. Ma senza le parole precedenti non avrei potuto tollerare la frammentazione che stavo subendo”. Vorrei sottolineare come i collage che avevo potuto ammirare non rappresentavano un’ unità ricomposta, ma invece mantenevano il carattere imprescindibile del frammento, perfetta rappresentazione dell’esperienza che la paziente stava vivendo. Mi ricordavano i quadri di un pittore inglese morto recentissimamente, da me molto amato, R.B. Kitaj. Era stato un pittore di straordinaria intelligenza e sensibilità che sembrava avere dedicato ostinatamente la vita alla ricerca della sua identità perduta, e lo sviluppo della sua arte appariva strettamente legato a queste ricerche, non solo nell’oggetto ma anche nello stile. Spesso nei suoi quadri appaiono infatti aspetti di scomposizione e ricomposizione frammentaria, pezzi di Sé riuniti insieme a formare un’unità che non sarà mai quella originaria, irrimediabilmente perduta. L’identità che costantemente rincorre sembra sempre sfuggirgli di mano, scomponendosi sulla tela sempre più quanto più egli cerca di rintracciarla. Il risultato è sempre un Altro, un Altrove. I suoi collages e i suoi pastiches non ricompongono, bensì sembrano ulteriormente frammentare l’immagine che intende rintracciare. In qualche modo l’aspetto della ricerca del linguaggio pittorico personale si è sostituito nel tempo a quello della sua identità e delle sue radici.
Wollheim, filosofo di estetica si domanda a quali necessità risponda la frammentazione nell’arte moderna. “Il frammento – dice – obbedisce a tre scopi. Aggancia il lavoro dell’arte al suo passato radicando parte del passato nel presente; riproduce le condizioni della vita moderna e specialmente della vita urbana moderna alla quale l’arte moderna è strettamente coniugata; e permette all’artista di catturare il mistero, lo straordinario, il demoniaco, che sono parte integrante dell’arte moderna.” Riallacciandoci al lavoro di Freud sul perturbante, potremmo dire che attraverso la frammentazione, caratteristica comune a molte correnti dell’arte moderna, dal cubismo al futurismo, dal suprematismo al costruttivismo, si cerca di accedere all’invisibile, all’al di là, al perturbante, che si manifesta attraverso gli spazi che si intravedono tra i frammenti visibili di realtà.
Il “Kunstwollen” ovvero “La volontà intenzionale”d’arte
Negli anni della Secessione a Vienna lo storico dell’arte e teorico del restauro Alois Riegl (1901) prendeva posizione contro le teorie positivistiche e meccanicistiche dell’arte allora vigenti, e sosteneva che l’arte figurativa doveva essere considerata come il risultato di un determinata “Volontà d’arte” (Kunstwollen) che si doveva affermare contro il fine utilitario, la materia prima e la tecnica. Secondo Dell’Acqua, (1979) così “l’accento si spostava dagli aspetti mimetici all’intenzionalità formatrice di un’epoca o di un’artista.” Le sue idee venivano riprese da Worringer che in “Astrazione ed empatia” (1908) dice che “l’opera d’arte, nella sua essenza più profonda e più intima rifugge dalla superficie visibile delle cose.” Astrazione ed empatia rientrano così nella categoria della volontà d’arte, come poli dell’esperienza artistica più vera.
Giovanna porta all’inizio dell’analisi un sogno. E’ in treno, e sa che ha appena cominciato un lungo viaggio. Dal finestrino scorge un paesaggio arido, deserto, completamente privo di tracce di vita, percorso solo dai fili elettrici dell’alta tensione. Commento che il paesaggio che sta descrivendo sembra essere la rappresentazione del suo mondo interno, come un luogo arido, privo di vita, attraversato da molta tensione, e che è proprio l’iniziare l’analisi, qui simbolizzata dal viaggio in treno, che la fa riflettere su questa sua condizione. Ovvero, una volta seduta sul lettino analitico, e immersa nella contemplazione del suo mondo interno, questo le appare come un mondo arido e desolatamente privo di vita. Appare soddisfatta dell’interpretazione, e aggiunge: “Mi sento così da molto tempo, ma non ero mai riuscita ad esprimerlo così bene”. La seduta successiva porta un sogno strano. “Non saprei come definirlo, ma è astratto. È uno spazio sempre vuoto, attraversato da righe, ma queste delimitano degli spazi geometrici, ordinati, ci sono dei colori diversi per ogni area.” Il sogno mi lascia molto perplessa, anche perché Giovanna non riesce ad associare nulla a tale immagine, finché casualmente il mio sguardo non è attratto dalla piccola riproduzione di un quadro di Mondrian appesa in un angolo del mio studio. Le chiedo se l’immagine del sogno possa assomigliare a quel quadro. Meravigliata, risponde che in effetti sembrerebbe proprio quel quadro, e che non le era assolutamente venuto in mente. Commento che forse l’interpretazione ricevuta il giorno prima sul suo sogno aveva prodotto una trasformazione di questo arido mondo interno percorso da linee dell’alta tensione in qualcosa di più creativo e poetico, un quadro astratto sbirciato nello studio dell’analista. Ride e a sua volta commenta che in effetti aveva notato il quadro, che Mondrian le piaceva molto, e che era stata molto contenta di trovarlo nello studio dell’analista
Riporto questo esempio perché mi sembra indicativo di vari elementi. Oltre alle capacità di rappresentazione simbolica della sua realtà psichica, come luogo dove soggettivamente si percepiscono gli eventi psichici, Giovanna aveva anche dato prova di capacità trasformative del materiale prodotto e di potere interagire in modo creativo ed originale con l’analista. L’episodio del quadro di Mondrian richiamava in modo abbastanza puntuale l’osservazione di Winnicott che: “Il bambino crea l’oggetto del gioco ma l’oggetto era lì in attesa di essere creato e di venire investito dal desiderio.”
Ogni processo creativo che osserviamo nei pazienti appare sempre, winnicottianamente, essere già lì, in attesa di venire creato. In questo senso l’arte astratta, liberandosi dalla necessità degli aspetti mimetici, fornisce alla mente umana strumenti rappresentativi e simbolici più ampi ed articolati. Il passaggio dalla rappresentazione figurativa alla non-oggettività ha potuto permettere ai nostri pazienti di comunicare emozioni non ancora trasformate in pensieri, in forme ugualmente accessibili ad una rappresentazione simbolica condivisibile.
I compromessi tra processi primari e processi secondari, per utilizzare il linguaggio della psicologia dell’Io, appaiono facilitati dalla condivisione del linguaggio dell’arte astratta. La molteplicità di significati accessibili, l’ambiguità esplicita di molte rappresentazioni artistiche consentono la riproduzione nel mondo onirico ma anche in quello narrativo e semantico di vicende e visioni che un forzata mimetica imitativa della realtà figurativa potevano limitare sia nella percezione nel mondo interno che nella comunicazione alla realtà esterna. In altre parole, la realtà psichica si ritrova, a nostro avviso arricchita di strumenti interpretativi e comunicativi grazie all’integrazione di nuove forme di rappresentazione artistica ormai ampiamente diffuse nell’immaginario collettivo.
Vedi Semir Zeki, 1993, 1999, 2003.
Fornari sottolineava come la realtà psichica fosse il ponte di collegamento tra mondo interno e mondo esterno, l’area dove si collocava la rappresentazione simbolica. La realtà psichica è il regno dove noi riflettiamo su ciò che ci accade, sulle sensazioni che percepiamo, sui sentimenti che proviamo. Ma per fare questo, per avere una realtà psichica, noi abbiamo bisogno di un qualche tipo di rappresentazione della nostra esperienza. Una buona parte del lavoro di un analista consiste proprio nell’aiutare il paziente a creare ed ampliare la sua realtà psichica, cioè quello spazio dove potere rappresentare le sue esperienze. La rappresentazione di un oggetto in questa realtà non è l’oggetto stesso, ma sta al posto dell’oggetto; questa attività rappresentativa ha ovviamente a che fare con la capacità di simbolizzazione.
Nel libro Dello spirituale nell’arte scritto nel 1910 e pubblicato nel 1913 Kandinskij affronta il tema degli “inscindibili rapporti tra spirito e materia” e concepisce una gerarchia senza separazioni nella “spirituale apparenza del mondo”. Come possiamo non vedere un rapporto tra queste nuove teorie artistiche e il contemporaneo sviluppo delle teorie di Freud sull’inconscio?
Altri elementi erano contenuti in questo utero, alcuni strettamente contingenti. (la paziente era alla ricerca di una gravidanza che poi si verificò, e temeva una malattia mortale di sua madre, che poi a sua volta avvenne).
L’ambiguità è anche presente nelle opere di molti pittori del passato, (vedi sopra tutti per esempio il sorriso della Gioconda) ma è peculiare dell’arte moderna la contrapposizione esplicita tra due elementi fortemente contrastanti.
Per Freud, la realtà psichica era un territorio dove si poteva dare un appagamento illusorio ai desideri arcaici di un individuo. Winnicott ha sviluppato questo modello nella sua teoria dello spazio transizionale. Lo spazio transizionale è l’area del gioco, nella quale si possono unire le fantasie interne ed il principio di realtà. Il rapporto che l’area transizionale ha con la realtà è sostenuto da un apparente paradosso, che è poi il paradosso della creatività: “Il bambino crea l’oggetto del gioco ma l’oggetto era lì in attesa di essere creato e di venire investito dal desiderio. E’ la mancanza di distinzione tra soggettività ed oggettività che rende questo spazio potenziale.” (Winnicott, 1971)