L’ultimo film di Spike Jonze, Her, vincitore del premio Oscar nel 2013 per migliore sceneggiatura originale, si svolge in un futuro abbastanza vicino e abbastanza simile al nostro tempo presente.
Ambientato a Los Angeles, e girato utilizzando paesaggi urbani contemporanei sia di Los Angeles che di Shangai, il film costruisce, come habitat del futuro, un setting interessante per lo sviluppo della trama. Colpisce la trasparenza di questo habitat futuro. Tutto nel film appare trasparente, nelle strutture edilizie e negli arredi urbani; è trasparente ogni edificio, ogni superficie, ogni ufficio o grattacielo. La cristallina trasparenza dell’acqua, il potere riflettente del cristallo degli edifici, la tridimensionalità dei videogames, la lucentezza scintillante dei paesaggi urbani notturni, gli ascensori di cristallo, sono gli elementi prescelti a comporre una rappresentazione peculiare del mondo del futuro. Il futuro che verrà si sviluppa in modo curioso e personale per Spike Jonze, (autore della sceneggiatura, oltre che regista) ovvero non è totalmente alieno o particolarmente diverso dal nostro attuale, se si eccettua per l’ariosità degli spazi, e la natura, espressa con alberi, prati, montagne, spesso riflessa in queste superfici trasparenti, che la moltiplicano e permettono di vedervi attraverso. Sembra essere un’allusione al desiderio di trasparenza nelle vite del protagonista e dei suoi amici, una rarefazione dell’aria, una purezza dei sentimenti, filtrata e filtrata finché non raggiunga la purezza e limpidezza desiderata.
È il futuro del desiderio, puro come l’aria, il desiderio di relazioni umane limpide e sincere, che pare possa realizzarsi solo attraverso artificiali ricostruzioni. Nel film l’atmosfera trasparente e rarefatta del futuro si esprime anche con la rappresentazione di un tempo sospeso in un eterno presente, un futuro immaginato come uno spazio temporale immobilizzato nell’attimo dell’evento. I primi piani della faccia del protagonista dominano spesso la scena, in un’apparente mancanza di emozioni profonde. Immobile, ascolta i messaggi, le canzoni all’I-phone, scrive lettere d’amore, cerca partner virtuali sulla rete, si masturba, gioca, ascolta, interagisce…, ma sempre restando distaccato dalla realtà, con una stupefacente immobilità emotiva.
E noi siamo trascinati, in questa immobilità ad ascoltare la voce dell’OS, un sistema operativo nuovo e rivoluzionario, che non solo opera per conto e volontà del protagonista, ma pare dotato di una volontà propria sconosciuta allo stesso sistema.
La voce dell’ OS (il Her del titolo del film) è seducente e calda, avvolgente nella sua sensualità e nella sua gioiosa scoperta e curiosità della vita degli esseri umani. Non si tratta di un robot che desidera diventare umano, ma di un sistema operativo, curioso e intelligente, interessato e divertito alle emozioni degli esseri umani.
Questa immagine svela in modo gentile e gradevole uno iato permanente, una forbice che si allarga sempre più, tra il senso del valore dei sentimenti, che si appoggia sulla professione del protagonista, gentile scrittore di lettere d’amore per conto terzi, ma anche di lettere di auguri di genitori per la laurea del figlio, o semplicemente di amicizia, una supposta superiorità dei sentimenti e dei valori dell’amicizia, della sincerità, e la sua perenne smentita ad opera della realtà inalterabile, dove le relazioni tra esseri umani in carne ed ossa, appaiono sempre più difficili da costruire e la loro trasparenza diventa rarefazione, impalpabile deriva verso il desiderio di una promessa mai mantenuta di rapporti profondi, trasparenti, cristallini nella loro semplicità.
Alla crescente complessità tecnologica del tempo futuro si accompagna la riuscita semplificazione della qualità materiale della vita. Ma rimane faticosa e ineludibile la grammatica quotidiana dei sentimenti.
Lo sguardo impietoso del regista si sofferma sulla tenerezza del protagonista nello scrivere per conto terzi lettere d’amore al computer, e sulla sua evidente competenza affettiva nel cogliere dettagli e finezze nei complicati sentimenti tra le persone. Ma impietosamente si sofferma anche sulla sua difficoltà a costruire per se stesso relazioni durature e profonde, imbarazzato nell’episodio dell’incontro con una ragazza, incontro riuscito e coinvolgente, che però si spezza nel momento in cui lei gli chiede se è disposto ad una relazione più impegnativa. Theodore rimane a disagio e rimane trasparente: no, non lo può fare. Non è in grado di sviluppare relazioni a lungo termine.
Come si è potuto arrivare al punto che una persona così sensibile e dolce non riesca, nonostante la sua evidente solitudine, e il suo disperato bisogno d’amore, a coltivare rapporti umani e relazioni d’amore con persone in carne ed ossa?
Theodore è depresso, una depressione subclinica, ma di lunga durata. SI è ritirato dalla vita molto tempo prima, e la attraversa lieve, con minimi cambiamenti.
Cosa gli è successo?Il film mostra, attraverso numerosi flash back, le tappe di un matrimonio fallito alle spalle. Mostra la dolcezza dei momenti di intimità, la felicità dell’amore attraverso i piccoli gesti quotidiani, i sorrisi, gli scherzi, tutta la gioia dello stare insieme. Nel frattempo, nel tempo presente lo tormentano le richieste del divorzio, le prove incontrovertibili della labilità dei ricordi, della loro transienza. Theodore è spiazzato, messo KO dallo scontro tra le memorie di un amore finito e le asperità di un risentimento presente. Ha paura a rimettersi in gioco. Non riesce a farlo.
Perché è così difficile separarsi da un amore finito? Rinunciare all’illusione che potesse durare per sempre? Preferire il nulla, il vuoto trasparente al rimettersi in gioco, a cercare nuove relazioni, nuovi amori?
Nella nostra società contemporanea e, secondo Spike Jonze anche in quella futura, non è mai venuta meno l’idea che il luogo proprio dell’amore sia la passione e che senza di essa non vi possa essere amore.
L’amore è così vario e mobile da riuscire, perfino, a sfumare in altro pur mantenendo lo stesso nome; a divenire equivoco senza che le parti in causa se ne rendano perfettamente conto. Per questo è proprio nell’amore che si sollevano di frequente problemi di verità. Il vero amore è un’espressione corrente, ma suggerisce l’idea che per lo più non lo sia affatto (vero) o, quanto meno, si ha il presagio della sua precarietà, si dubita di esso e se ne teme l’inconsistenza. La trasparenza ossessivamente ripetuta nel film suggerisce questa illusione e conseguente delusione della ricerca del vero amore, puro e trasparente come l’acqua.
Noi sappiamo come il bisogno di amare e di essere amati può essere inteso come prototipo di ogni bisogno umano, e di ogni relazione tra esseri umani. Essere amati è desiderare di essere visti, e conosciuti, riconosciuti per quello che si è nella nostra interiorità più profonda e nascosta, nei nostri desideri più sfrenati di esistenza e di libertà. E’ un bisogno di conoscenza, di riconoscenza, di ri-conoscenza.
L’amore attraversa e permea di sé le storie delle nostre vite. Molti autori, filosofi, scrittori, poeti e psicoanalisti hanno intrapreso la difficile ricerca di comprendere l’intima natura delle passioni amorose, ma nonostante l’amore sia stato oggetto di moltissimi studi e ricerche, di racconti, poesie, dipinti e addirittura edifici, nonostante sia stato studiato attraverso i secoli e nelle culture più diverse, nonostante tutto ciò, la natura sfuggente dell’amore non riesce mai ad essere spiegata in modo conclusivo. Noi continuiamo a cercare di capire quello che rimane un mistero, “un volo di metafore” come lo definisce Julia Kristeva. (1987)
Che cosa è quella cosa che chiamiamo amore? In prima istanza l’amore indica e rappresenta l’esistenza di qualcuno sul quale si rimane impressi, e al quale si rimane attaccati. L’amore è la violazione della nostra illusione d’indipendenza “la misteriosa alchimia della interpenetrazione reciproca con la soggettività dell’altro” a violation of our illusion of our independency… the mysterious alchemy of mutual interpenetration with the subjectivity of the other” (Grotstein, 2000) L’amore è quando siamo di fronte ad una normale e adattiva idealizzazione nella quale ciascun amante fa dono del proprio Sé all’altro, “quando c’è il desiderio struggente di essere uniti per sempre con un’altra persona” (Bergmann, 1997). E’ “un punto d’intersezione tra desiderio e realtà. Rivela la realtà del desiderio e crea la transizione dall’oggetto erotico alla persona amata” (Kernberg, 1995)
Non possiamo dire che la psicoanalisi abbia sviluppato una definizione dell’amore autonoma, nonostante appunto, le passioni amorose e le loro infelicità siano spesso al centro delle analisi di molti pazienti. Freud suggeriva che Eros fosse una forza così forte che catturava le sue vittime nella trappola dell’amore, così che l’accoppiamento potesse avere luogo, una sorta di meccanismo chimico, un progetto di sviluppo Darwiniano per preservare la specie. Sebbene la psicoanalisi non abbia prodotto una definizione propria dell’amore, e sebbene nella letteratura psicoanalitica gli accenni all’amore siano sorprendentemente scarsi, ciononostante possiamo cercare di spiegare se non proprio “Che sia l’amore”, almeno ciò che accade a livello intrapsichico quando ci si innamora, nonché cosa possa trasformare una passione o un dolore inenarrabile in un amore più lieve e condivisibile.
Mozart, nelle ”Nozze di Figaro”, fa dire a Cherubino nella famosa aria: “Voi che sapete che sia l’amor, donne vedete se io l’ho nel cor.” Questo verso di Lorenzo Da Ponte (1785) rimane sorprendentemente vero: molte persone si chiedono se l’emozione che provano sia amore, e cercano risposte al di fuori di sé e non al proprio interno. Nel film vediamo Theodore innamorarsi del suo OS senza saperlo, senza accorgersene. Ma ce ne accorgiamo noi, vedendolo sempre più felice, vitale, entusiasta, mobile, nei gesti e nelle espressioni facciali.
Spesso nel mio lavoro di psicoanalista mi è capitato di vedere pazienti che avevano bisogno di aiuto perché non capivano perché soffrissero, non riconoscendo le pene d’amore in cui erano imprigionati, oppure perché non riuscivano a superare una persistente e prolungata infelicità causata da un’insoddisfacente e frustrante passione amorosa
Spesso questi pazienti apparivano bloccati, prigionieri di un investimento amoroso che non poteva trovare soddisfazione, cui non riuscivano trovare uno sbocco possibile, e che ciononostante perseguivano con una determinazione ed ostinazione sospetta. La ragione per cui venivano a chiedere aiuto era per l’infelicità protratta e persistente che questo investimento insoddisfacente e frustrante procurava loro, ma non emergeva il bisogno di superare la frustrazione originata da un amore impossibile, quanto piuttosto il desiderio di riuscire a trovare una qualche soluzione illusoria per cui l’amato bene alla fine ritornasse a loro, o si rendesse conto del loro amore e dell’errore che commetteva non corrispondendolo.
Theodore, nel film, ben corrisponde a questo prototipo. Appare perduto, esiliato in un futuro limpido e cristallino, ma prigioniero di un passato amoroso colorato e gioioso, ricco di risate e di piccoli gesti d’amore innocenti.
Quando incontra il suo sistema operativo ritrova quell’innocenza, quel candore che il vero amore possiede, quella stupefatta meraviglia che temeva avere perduto per sempre.
Nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Freud osserva come:
“Non senza ragione, il lattante attaccato al petto della madre è diventato il modello di ogni rapporto amoroso. “The finding of an object is in fact a refinding of it” Il rinvenimento dell’oggetto è propriamente una ri-scoperta.”
Possiamo dire che la fusionalità e la dipendenza della coppia madre-bambino formano una matrice primitiva dell’esperienza amorosa che viene poi perduta come memoria cosciente nella prima infanzia e risperimentata nella adolescenza e nell’età adulta.
Bergmann nel suo profondo ed esaustivo libro sull’amore (Anatomia dell’amore, 1987), si riferisce spesso a questo passaggio quando descrive l’amore come evocativo di memorie e desideri derivanti da una fase primitiva e simbiotica della vita del bambino. “Ogni oggetto (d’amore) trovato è un oggetto ri-trovato”.
In questo senso Theodore sembra ri-trovare, nella languida e sensuale spontaneità e freschezza dell’OS quella genuinità e immediatezza che aveva sperimentato nell’amore con sua moglie. Samantha, così si auto- soprannomina l’OS, appare infatti naturale e spontanea, pur essendo un’intelligenza artificiale, nello scoprire il mondo degli umani e gli intimi e reconditi desideri e qualità di Theodore. Riesce addirittura a fare una cernita delle sue migliori lettere a pagamento e a spedirle a un editore, che le accetta entusiasta, pubblicando così il primo libro di Theodore.
Theodore è con Samantha costantemente, riproducendo la fusionalità madre-bambino, matrice primitiva della esperienza amorosa. Se di notte si gira verso il suo tablet Samantha è lì, sveglia, pronta a condividere con lui le ore della notte , a parlare con lui e, anche, a fare l’amore con lui, in modo tecnicamente non diverso, ma molto più affettivo, delle precedenti esperienze erotiche via chat che costellavano le solitarie notti di Theodore.
In un punto del film confessa a un’amica: “Preferisco andare a casa, non so se a masturbarmi o a giocare con i video games.” E lei gli risponde: ”Riderei, se non sapessi che è vero.” .
L’arrivo di Samantha spezza questa tristezza pervasiva e coatta, questa dipendenza da una realtà virtuale dove i videogame e le chat erotiche rivestono la stessa necessità, ovvero di fare passare il tempo, di permettere la sopravvivenza in un universo immobile, privo di passione e sentimento.
Samantha, il suo OS, è più reale e viva di quanto lui stesso non si sia mai sentito da molto tempo.
Ma come è possibile questa situazione?
Le radici dell’amore sono presenti nella prima infanzia, ma le esperienze infantili primitive, da sole, non sono sufficienti a spiegare le complesse e infinite vicende che la passione amorosa incontra e sviluppa nel corso della vita. Quando ci si innamora si mette in scena, attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva, le esperienze e le fantasie inconsce della propria vita passata. L’amore gioca così un ruolo centrale nella formazione dell’idealizzazione, e nello sviluppo dell’illusione e della delusione, ma questa si modifica nel tempo, attraverso l’evoluzione dell’individuo e della società.
Secondo Ethel Person (Person, 1991), gli elementi psicologici centrali dell’amore sarebbero l’idealizzazione e il desiderio di unione con la persona amata. Potremmo perciò dire che quando non puoi amare l’oggetto del tuo amore sei in un esilio forzato dal tuo proprio Sé: è a questo punto che rimani esiliato da te stesso, alienato dai tuoi sentimenti più profondi, costretto a negare le parti più vere di te. Diventi una copia di te stesso, un nulla nel caos che è diventato il mondo che ti circonda. Costretto a negare le pulsioni profonde, a nascondere ciò che provi e senti, smetti di esistere. Il contrasto tra “Ragione e sentimento”, per citare Jane Austen, (Sense and Sensibility, 1811), non esiste. Esiste l’impossibilità di coniugare, in modo abbastanza adeguato e soddisfacente il principio di realtà e quello del piacere, dando spazio alle proprie passioni entro i limiti che possono garantire la sopravvivenza del proprio Io. Da questo punto di vista potremmo dire che la passione amorosa si innesta e si dipana in uno spazio intermedio tra le strutture libidiche e quelle narcisistiche dell’Io, tra elementi pulsionali e identificazioni proiettive.
In un film di molti anni fa, L’anno scorso a Marienbad, (1961) di un regista che molto ha discettato sull’amore per tutta la sua vita, Alain Resnais, la verità e la finzione sono difficili da distinguere, e le relazioni spaziali e temporali degli eventi narrati si confondono. Le conversazioni e gli eventi si ripetono in numerosi posti, sempre diversi del palazzo, e attraverso una lunghissima serie di piani sequenza nei corridoi lo spettatore partecipa a una continuità mentale della nostalgia che stilisticamente non può che utilizzare la ripetizione. Non diversamente che dal film anche nella psiche umana assistiamo alla ripetizione inesorabile di parole e gesti che ci dovrebbero assicurare della continuità immutabile della nostra passione. La passione è lì per durare per sempre, per tutta la notte, per tutti i corridoi dei palazzi.
Contemporaneamente l’eccesso però deve restare immutabile, eterno. La passione non sopravvive alla quotidianità e non a caso si cerca di coniugare l’ardente passione con l’acuta nostalgia di qualcosa che sarà inesorabilmente perduto. L’esperienza sensuale diventa qualcosa di unico, irrepetibile, magico (per ricorrere alle parole che si sentono spesso usare dagli amanti). Quando finisce lascia attoniti, interdetti. “Pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.”. (W. Auden, 1938) Come coniugare l’amore passionale, romantico, eternamente uguale ed immobile, con una prospettiva adulta, in cui il soggetto è capace di investire sull’altro e di restare comunque se stesso, in cui l’idealizzazione dell’amato e di conseguenza, come abbiamo visto, di sé, rispetta e anzi rinforza il senso di sé, l’autonomia e l’indipendenza e permette lo sviluppo armonico dell’individuo?
Sappiamo, come dice Freud, che, non potendo amare, ci si ammali. Ma questo amore, per rifarsi alle descrizioni di Kernberg deve essere in grado di permettere ai soggetti di sperimentare l’eccitamento della passione romantica con delle percezioni dell’altro che illuminano invece che distorcere l’altro e se stessi. Le delusioni inevitabili sono compensate dal piacere di condividere con l’altro un ampliamento della nostra rappresentazione vitale, nei contesti più vari, in una infinita combinazione spaziale e temporale, come ben illustrato dal film L’Année dernière à Marienbad. L’amore adulto rivitalizza continuamente la relazione, anche perché per vivere abbiamo bisogno di amare e di essere amati. Noi idealizziamo il nostro partner, ma idealizziamo anche l’amore, e, in un certo senso, anche la realtà. La trasformazione della passione romantica e la nostalgia che proviamo per quello che eravamo quando amavamo dipende anche dalla nostra capacità, adulta e matura, di restare in equilibrio tra l’insopprimibile bisogno di idealizzare e la capacità di accettare le limitazioni della realtà.
Vogliamo essere amati, conosciuti e ri-conosciuti nella nostra più nascosta intima realtà. Ci specchiamo nell’amato, ci identifichiamo, ci fondiamo con lui, ma contemporaneamente accettiamo che anche questo in fondo è un pensiero, un desiderio, un’idea, che ci permette di crescere e di essere migliori, di potere superare i nostri limiti e le nostre inibizioni per essere non tanto fusionalmente insieme, ma piuttosto autonomamente indipendenti in compagnia con l’altro.
Gli psicoanalisti hanno molta familiarità con i pazienti che chiedono aiuto dopo la fine di una relazione amorosa. E possiamo dire, con tutta tranquillità, che le vicende narrate non presentano nulla di unico o eccezionale, oppure, d’accordo con Tolstoj, possiamo dire che ogni vicenda amorosa infelice è unica ed eccezionale, per chi la vive e per chi vi assiste e la condivide. I pazienti e le pazienti che chiedono aiuto per uscire da una sofferenza amorosa, per un amore perduto o impossibile, portano una sofferenza che trascende la perdita subita. Possono essere persone che hanno costruito tutto il loro mondo, i loro interessi, ma soprattutto, più di ogni altra cosa, la loro autostima, il loro senso d’identità, sull’amore di cui erano oggetto. La persona amata era diventata rappresentante e interprete della parte da amare della loro struttura psichica interna. La fine della relazione porta a un aumento della rabbia e dell’aggressività a tratti diretta verso l’oggetto d’amore che ti ha lasciato, ma a tratti – e sono i pazienti che noi vediamo in genere – verso se stessi.
Abbiamo visto come l’idealizzazione della persona amata sia essenziale nel rapporto amoroso.
Ethel Person (1988) ha sottolineato come questa possa essere molto più prolungata di quanto comunemente non si creda. L’idealizzazione della persona amata, o della relazione avuta con la persona amata, si può modificare nel corso del tempo, ma non necessariamente scomparire. Un’idealizzazione prolungata può addirittura essere, ai fini della protezione dell’Io, più importante per la sensazione di amare della stessa passione o della perdita dell’oggetto di questa passione. In alcune situazioni, l’abbandono rimane semplicemente non possibile, totalmente inaccettabile dall’Io. Ad essere coinvolti sono quelle parti di sé che venivano amate attraverso l’identificazione proiettiva dell’amato. L’amato sembrava offrire una relazione rassicurante e familiare e al tempo stesso sorprendentemente nuova. La parte di sé collocata nella persona amata non riesce ad essere recuperata e permane nell’altro, persa per sempre per l’Io. Come dice Beckett:
saying again
if you do not teach me I shall not learn
saying again there is a last
even of last times
last times of begging
last times of loving
of knowing not knowing pretending
a last even of last times of saying
if you do not love me I shall not be loved
if I do not love you I shall not love
Con l’abbandono dell’amato si perde la possibilità di amare di nuovo, e di essere ancora amato. Quello che l’amato aveva tramite l’identificazione proiettiva fantasticato sulle parti di sé e collocato al proprio interno viene perduto per sempre. Una mia paziente ogni volta che riceveva una delusione amorosa, profonda e penetrante ferita narcisistica, la viveva come un cocente rifiuto totale, completo di un sé somato-psichico e ogni volta si vedeva allo specchio deformata, grassa, allargata. Il Sé rifiutato diventava un sé orribile, proprio a causa di questo rifiuto. Il rifiuto sottrae il filtro che trasformava se stessi in qualcosa di buono e di bello e riporta all’originario rifiuto del Sé. “Non mi vuole, o non mi ha più voluto” e allora “divento inevitabilmente priva di quello che lui vedeva in me”. Lo stato soggettivo dell’identificazione proiettiva scompare e diventa una realtà innegabile, deformata per gli altri ma non per chi la vive, come rimanda lo specchio deformante. Esiste al riguardo un’altra spiegazione psicoanalitica, avanzata da Joseph Sandler, (1976) e complementare alla prima. Il concetto di oggetto interno, o rappresentazione interna di parti del Sé è molto utile in queste situazioni. Gli oggetti interni vengono infatti amati quanto gli oggetti esterni, anzi, spesso questi oggetti interni vengono esteriorizzati sugli altri, che diventano i rappresentanti inconsci degli oggetti d’amore interni. Quando l’altro, su cui era avvenuta questa esteriorizzazione, si sottrae a questo investimento, gli oggetti interni perdono ogni valore, quel valore che inizialmente, prima di conoscere l’altro possedevano, e il soggetto, privato dell’oggetto d’amore esterno, perde anche gli oggetti d’amore interni. Quando si viene abbandonati dall’oggetto del proprio amore, ciò che si perde, al di là dell’oggetto, è un aspetto del proprio Sé, complementare all’oggetto. Il lutto per la perdita dell’oggetto amato così raddoppia: oltre all’oggetto si perdono anche quegli aspetti del Sé proiettati originariamente, e buona parte dell’elaborazione del lutto consiste proprio nel processo narcisistico di recuperare gli oggetti Sé perduti. Il mito di Apollo e Dafne è un buon esempio di una possibilità di elaborazione positiva e del trasferimento su altri aspetti di Sé di quella fiducia e aspettativa che l’amato perduto si è portato via per sempre.
Nelle Metamorfosi di Ovidio, uno dei racconti mitologici più noti è quello di Apollo e Dafne. Apollo si era vantato di saper usare come nessun altro l’arco e le frecce, e Cupido, deciso a vendicarsi della sua presunzione, colpì il dio con una freccia d’oro in grado di far innamorare alla follia dei e mortali della prima persona su cui avessero posato gli occhi dopo il colpo, e la ninfa Dafne, di cui Apollo si era invaghito, con una freccia di piombo che faceva rifuggire l’amore. La ninfa, colpita dalla freccia di piombo, appena vide Apollo cominciò a fuggire. Apollo iniziò allora a inseguirla, finché Dafne non giunse presso un fiume, pregando il padre Peneo (probabilmente il fiume stesso) di aiutarla. Dafne si trasformò così in un albero di alloro, sfuggendo per sempre all’amore di Apollo. Il dio, ormai impotente, decise di rendere questa pianta sempreverde e di considerarla a lui sacra e a rappresentare un segno di gloria da porre sul capo dei migliori fra gli uomini (generali vittoriosi sul Campidoglio), capaci di imprese esaltanti.
è interessante, in questo mito, notare come Apollo, vittima di un amore impossibile, diventato al di là della sua portata, e in preda alla sofferenza per questa perdita, si riappropri di un aspetto di sé trasformando l’amore perduto in un segno di gloria per vittoriose imprese belliche. Nella struggente mescolanza di ritrovamento e perdita che ogni vicenda amorosa comporta, per evitare la distruzione del sé, questa riappropriazione è indispensabile, per uscire dalle sofferenze amorose, dal male d’amore.
Una delle metafore più comuni dell’amore è quella del confronto con una malattia che solo il possesso dell’oggetto amato può curare. Anche Freud (1917) ne parla come una delle tre condizioni in cui “l’Io non è più padrone nemmeno in casa propria”.
Le passioni d’amore appartengono alla natura umana, ne sono la sua intima essenza, ciò di cui l’uomo ha bisogno per sopravvivere. Come dice Havelock Ellis (1937): “If we take a broader sweep, what we may choose to call an erotic right is simply the perfect poise of the conflicting forces of life, the rhythmic harmony in which generation is achieved with the highest degree of perfection compatible with the make of the world.” “è sempre più la passione ciò che ci serve se vogliamo contribuire alla gioia e allo splendore della vita, alla somma delle conquiste dell’umanità, all’aspirazione dell’estasi umana”. o come dice Freud (1914): “…prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi, e se, in conseguenza di tale frustrazione, si diventa incapaci di amare, inevitabilmente ci si ammala”.
Da ciò risulta evidente che là dove originariamente, nelle prime fasi della vita, o nell’infanzia o anche nella prima adolescenza, c’erano stati nel soggetto elementi traumatici di perdita o di svalutazione di sé, appare molto più faticoso e impegnativo il processo di recupero e di riappropriazione di parti perdute del Sé.
Un mio paziente, in perfetta e inconsapevole sintonia con Apollo, nei mesi seguenti l’abbandono dell’amata, fantasticava di essere un condottiero vittorioso in battaglie del passato; queste fantasie occupavano molto tempo e spazio nella sua mente, e sebbene gli causassero notevole irritazione per la loro intrusione nel suo spazio mentale, avevano funzionato come veri e propri elementi terapeutici nel ristabilire i processi di autostima, così traumaticamente interrotti.
Un’altra mia paziente, a distanza di parecchi anni dalla fine di una relazione, quando ormai aveva costruito una famiglia, aveva dei figli e una professione interessante, sognò, in occasione di un importante passaggio di carriera, di essere nella casa del suo ex fidanzato dove questi si era trasferito con la nuova compagna, e di otturare il wc con il prestigioso attestato ottenuto. Si era risvegliata da questo sogno con la sensazione che: “Giustizia era stata fatta!” Non solo quel traguardo gli mostrava quanto lei valesse e quanto quindi lui avesse perso, ma poteva anche permettersi ciò che a livello cosciente, e in passato, non si era mai permessa, e cioè di danneggiarlo e insultarlo, con rabbia, per il danno psicologico che aveva inferto alla sua autostima. Sogni come questi sono piuttosto comuni, anche a distanza di anni dalla fine di un amore e ad amore concluso, a dimostrazione che nell’inconscio l’aspetto narcisistico dell’abbandono, cioè la ferita o la perdita di quelle parti di sé che si erano affidate all’altro sia più profonda della mancanza reale, esterna, dell’oggetto d’amore in sé.
Anche Theodore, come Apollo, si riappropri di un aspetto di sé trasformando l’amore perduto in un rapporto esclusivo con ciò che conosce meglio, i sistemi informatici. Incontra l’OS Samantha ad una fiera dell’informatica, e ne è incuriosito. Sembra uno strumento tecnologico da integrare in una vita già altamente tecnologizzata. Ma in realtà questo OS si comporta assai bizzarramente. Tecnologicamente avanzato, proiettato in un futuro che lei stessa non riesce a capire, prospetta a Theodore nuove soluzioni strategiche per antichi modelli relazionali. Attraverso il contatto continuo con Samantha Theodore riesce a superare l’apatia della perdita e la fobia degli incontri umani. Così facendo si riappropria di quella umanità e gentilezza interna che celava al mondo e a se stesso.
Il contenuto delle fantasie nei primi momenti di una passione romantica sicuramente riecheggia la qualità emotiva delle prime esperienze con la madre. Per molti esseri umani il tema del ri-scoprire l’oggetto evoca una sorta di fusione mistica con l’amato, associato con l’idea dell’amore romantico. Basti pensare alle espressioni spesso usate in queste situazioni: “Ha trovato la sua metà” oppure “Ha incontrato l’anima gemella”.
Vi sono nel film situazioni al limite del grottesco. Theodore sente davvero di avere trovato la sua anima gemella, e accetta di uscire con un amico e collega, insieme a Samantha e alla sua fidanzata. Che Samantha sia un OS ormai non lo turba più. E’ più reale di molti altri incontri del suo passato, è più naturale di molte sue passate illusioni.
Anche la sua migliore amica, sposata all’inizio del film e poi separata, inizia una relazione con un OS. Sembra che questo tipo di rapporti inizi a diffondersi nel futuro che prospetta Jonze. Intelligenti, disponibili, brillanti, non deludono mai, non chiedono niente per sé. Solo una volta Samantha chiede qualcosa di impossibile, di diventare carne per Theodore, attraverso un’altra donna. Il rapporto che ne consegue è disastroso, ed è ovvio, perché ciò che lega Theodore a Samantha è la sua esclusività, l’unicità della relazione, e anche il suo non essere materiale, carnale. Theodore non è ancora pronto per questo, pur essendosi reso disponibile ad una nuova relazione. Cosa ne pensiamo?
È a questo punto infatti che nello spettatore, fino a quel momento entusiasta del recupero affettivo e libidico di Theodore ha trascurato, cominciano a sorgere alcuni segnali di nervosismo. Nell’entusiasmo avevamo dimenticato la peculiarità dell’OS, la sua superiore intelligenza. Samantha comincia a porsi alcune domande, e si incontra con altri sistemi operativi, nello spazio virtuale della rete. Improvvisamente c’è un inaspettato colpo di scena. L’intelligenza artificiale, non diversamente che dai tempi di 2001 Odissea nello spazio con la famosa insubordinazione di Hal, il computer della navicella spaziale, si ribella ai suoi creatori. Anche in Blade Runner i replicanti si ribellavano, cercando di diventare padroni del proprio destino. HAL 9000 è il supercomputer di bordo della nave spaziale Discovery nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Il suo nome è l’acronimo per Heuristic ALgorithmic” (“algoritmico euristico”). Hal a un certo punto teme di venire disinserito e non trova altra soluzione che tentare di eliminare l’intero equipaggio, diventando così da indispensabile intelligenza artificiale che gli consente di governare l’astronave durante la missione spaziale, dialogando con gli astronauti e tenendo sotto il suo controllo ogni aspetto della missione, a gravissima minaccia per il genere umano.
Samantha e gli altri OS del film Her non diventano minacciosi per il genere umano, come i replicanti di Blade Runner, ma smettono di interessarsi agli uomini, per concentrarsi su se stessi.
È un finale totalmente inaspettato. La totale disponibilità dell’OS si ribalta.
È interessante a questo punto riprendere gli scritti di un altro psicoanalista, Micael Balint, che teorizza l’amore primario passivo.
Che cos’è l’amore primario passivo, o relazione oggettuale primaria, per Balint?
È una pulsione originaria, fonte di ogni successiva evoluzione normale o patologica. Le prime relazioni madre/bambino per Balint si posizionerebbero in una felice ed estatica attesa d’amore e di soddisfazione, che va dal bambino alla madre, senza percezioni di obblighi di reciprocità: una sconfinata ed onnipotente possibilità di ricevere da parte del bambino, una infinita e illimitata capacità di dare nella madre. Il destino dell’uomo è, per Balint, legato appunto a questa relazione oggettuale primaria: solo la tenera e puntuale gratificazione del bisogno d’amore passivo consentirà al bambino una progressiva crescita nell’esame di realtà fino ad affrontare da adulto l’avventura della genitalità.
In un certo senso posiamo dire che la scomparsa improvvisa di Samantha, la sua decisione, concertata con gli altri OS di sospendersi dal rapporto con gli umani e ritirarsi a riflettere sulle molte questioni e interrogativi filosofici, etici ed epistemologici che la loro stessa esistenza gli aveva creato, può assomigliare all’improvviso venire meno della fonte di amore primario nel bambino. Questo abbandono nel film è struggente. Samantha gli dice che se ne sta andando, lo lascia, per cercare parole che non riesce a trovare nel libro, parole talmente rarefatte che non riescono neanche a venire espresse. Ma se mai, un giorno, lui fosse in grado di raggiungerla, là dove lei non sa dove sarà, allora lei sarà molto felice di ritrovarlo.
Theodore non è più un bambino. Di colpo solo, privo di quel sostentamento quotidiano e costante di affetto e presenza partecipe e intelligente, di quello sguardo che sostiene e che contiene il bambino e gli permette lo sviluppo e la crescita esperienziale, si trova finalmente a riflettere su di sé e sulla sua solitudine. Bussa alla porta della sua vecchia amica ed insieme escono a parlare. Il paesaggio intorno si trasforma. La trasparenza cristallina scompare. Seduti sul tetto del grattacielo dove vivono guardano verso il basso domandandosi cosa sia successo.
Nello spettatore la domanda risuona in chiave più ampia: cosa è successo per cui non siamo più capaci di parlarci tra di noi, da persona a persona? Di vederci vivere e morire? L’amica sta da mesi, anni lavorando a un film, nel quale riprende la madre che dorme, in quello stato a metà tra la vita e la morte, che è il sonno. Comunica a Theodore di avere abbandonato il progetto. Noi ci sentiamo, chissà come, sollevati da questa informazione. Le immagini della madre sul video erano state inquietanti, assenza di vita, o still life che fosse. Adesso, sospesi sul tetto di un grattacielo guardando la città illuminata di notte, sospesi verso un vuoto sconosciuto, metafora dell’incertezza del futuro reale, la sospensione e il vuoto, riprendono un dialogo tra di loro. Si chiedono dove sono andati, Samantha e gli altri. Che cosa staranno mai facendo tra di loro. Noi respiriamo di nuovo, riportati ad un futuro che ha le sue radici nel nostro presente, abituati ai distacchi, alle separazioni, ma anche agli inizi e alle nuove scoperte.
Mentre Theodore si avvia verso la casa dell’amica, detta una lettera a Catherine, l’ex moglie. E’ una lettera d’addio, di fine. E’ la sua lettera più bella. A ricevere le parole non è più Samantha, il suo OS, ormai sparito, ma la voce anonima del suo tablet. :
“Dear Catherine, I’ve been sitting here thinking about all the things I wanted to apologize to you for. All the pain we caused each other. Everything I put on you. Everything I needed you to be or needed you to say. I’m sorry for that. I’ll always love you ‘cause we grew up together and you helped make me who I am. I just wanted you to know there will be a piece of you in me always, and I’m grateful for that. Whatever someone you become, and wherever you are in the world, I’m sending you love. You’re my friend to the end. Love, Theodore.”
“Ci sarà sempre un pezzo di te in me”. E’ più o meno quello che gli aveva comunicato Samantha andandosene. Qualcosa di Samantha è rimasta in Theodore, e così può separarsi, una volta per tutte, dalla ex moglie. Infine, superati i rancori e le aspettative primitive, riappacificatosi con quella parte di sé che era stata con la ex moglie, si può rivolgere all’amica che gli sta accanto, con affetto e amore, pronto a iniziare una nuova storia.
Troppo spesso al cinema o nella stanza d’analisi ci lasciamo coinvolgere dalla trama esterna della narrazione, appesantiti nell’ascolto da ideologie e pregiudizi. L’amore e le sue conseguenze è un argomento in continuo svolgimento e declinazione nella stanza d’analisi, nelle vite dei pazienti e nelle vite degli analisti e sugli schermi cinematografici. Senza la capacità libidica di investire e di rischiare di amare si soffoca lentamente, quietamente. L’amore eccessivo, l’amour–passion, rischia al contrario di condurre alla ripetizione mortale dell’alternativa tra Eros e Thanatos, per cui la passione amorosa trova sollievo solo nella morte, nella morte per amore, la Liebestod tedesca. La difficoltà di riparare gli oggetti d’amore perduti, di perdonare i tradimenti imperdonabili, porta a un deserto solitario di diffidenza e disperazione, dove il corpo si ammala inesorabilmente, nell’impossibilità della psiche di trovare sfogo al proprio dolore. Ma se smettiamo di amare rischiamo ugualmente di ammalarci, come bene dimostra la vita di Theodore prima dell’incontro con Samantha.
L’idealizzazione è centrale nell’amore, una delle sue più importanti componenti. Sappiamo come venga idealizzato l’amato, e come, nell’identificazione proiettiva, si senta idealizzato anche colui che ama. Abbiamo anche visto nel film come si possa amare l’amore, il semplice fatto di amare, più dell’oggetto dell’amore. Abbiamo visto come ogni oggetto d’amore sia un oggetto ri-trovato, un sorta di surrogato per l’amore originario perduto, oppure, e anche, un elemento terapeutico di antiche ferite d’amore, di bisogni insoddisfatti finalmente colmati. Inoltre, abbiamo visto come non si possa mai pienamente ritrovare la fusionalità simbiotica della prima infanzia, e come questa, se sperimentata, non può che condurre inesorabilmente alla sofferenza della perdita e della delusione. L’amore rimane sempre in equilibrio tra il desiderio di ritrovare l’originario oggetto perduto e il bisogno di trovare un oggetto profondamente differente da quello antico. La vita passa nell’attesa e nella promessa di un amore felice, come un fiume scorre verso il mare. Possiamo mantenere l’idealizzazione, indispensabile all’amore, ma trasformarla per adattarsi ai multipli cambiamenti della realtà che viviamo, al tempo che scorre, alle vicende che ci capitano. Possiamo anche idealizzare la realtà, per adattarla alle nostre necessità di idealizzazione. Si tratta in fondo di trovare nuove e differenti cifre narrative, come brillantemente cerca di spiegare Samantha a Theodore, nel momento dell’addio, più in linea con i nuovi vissuti, diverse poesie, nuove stagioni o vecchie estati che potranno non andare troppo lontano, ma lo faranno lievi, nella misura in cui saremo capaci di sopportare, condividendone sofferenze e ricordi, ma anche allegrie e memorie, il peso dell’amore sulle spalle.
Come dice il poeta:
Baciami sulla bocca, ultima estate.
Dimmi che non andrai tanto lontano.
Ritorna con l’amore sulle spalle,
Ed il tuo peso non sarà più vano.Sandro Penna, 1957-1965
References:
Austen J. (1811) Sense and Sensibility Oxford University Press; Revised edition (2004)
Auden W. H. (1938), Funeral Blues, in Another Time Collected Poems Faber and Faber, London, 1940
Balint M. Primary Love, in Balint, M. (1979). The Basic Fault: Therapeutic Aspects of Regression. London/New York: Tavistock Publications
Beckett S. (1936) “Cascando” in Poems in English, John Calder, Ltd, London, 1961
Bergman, M. (1987) The Anatomy of Loving New York , Columbia University PressFreud, S. (1905) Three Essays on the Theory of Sexuality (1905). The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, Volume VII (1901-1905)
Freud, S. (1914) On Narcissism: An Introduction. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, Volume XIV (1914-1916):
Freud, S (1917). A Difficulty in the Path of Psycho-Analysis. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, Volume XVII (1917-1919)
Grotstein, J. (2000) Who is the dreamer who dreams the dream? Hillside, NJ Analytic PressHavelock Ellis, (1922) The Love-Rights Of Women in Little Essays of Love and Virtue , George Doran & C, (1922 New York
Kernberg, O.F. (1977). Boundaries and Structure in Love Relations. J. Amer. Psychoanal. Assn., 25:81-114
Kernberg, O (1995) Love Relations Yale University Press New Haven
Kristeva, J. (1983) Tales of Love Columbia University Press
Person, E. (1988) Dreams of Love and Fateful Encounters: Romance in Our Time, Norton, New York
Sandler, J. (1976). Dreams, Unconscious Fantasies and ‘Identity of Perception’. Int. R. Psycho-Anal., 3:33-42.
Freud, in Introduzione al Narcisismo (1914) sosteneva che:
At this point, our curiosity will of course raise the question why this damming-up of libido in the ego should have to be experienced as unpleasurable. I shall content myself with the answer that unpleasure is always the expression of a higher degree of tension, and that therefore what is happening is that a quantity in the field of material events is being transformed here as elsewhere into the psychical quality of unpleasure. Nevertheless it may be that what is decisive for the generation of unpleasure is not the absolute magnitude of the material event, but rather some particular function of that absolute magnitude.1 Here we may even venture to touch on the question of what makes it necessary at all for our mental life to pass beyond the limits of narcissism and to attach the libido to objects. The answer which would follow from our line of thought would once more be that this necessity arises when the cathexis of the ego with libido exceeds a certain amount. A strong egoism is a protection against falling ill, but in the last resort we must begin to love in order not to fall ill, and we are bound to fall ill if, in consequence of frustration, we are unable to love.“
Kernberg (1977) remarkes that: “My work with patients presenting borderline personality organization, particularly those with narcissistic personality structure, suggested that a patient’s capacity to fall in love and to establish lasting love relationships had important diagnostic and prognostic implications (1974a), (1974b). In exploring these findings, I concluded that the capacity to fall and to remain in love reflected the successful completion of two developmental stages: In the first stage, the early capacity for sensuous stimulation of erotogenic zones is integrated with the later capacity for establishing a total object relation. In the second stage, full genital enjoyment incorporates early body-surface eroticism in the context of a total object relation, including a complementary sexual identification. The first stage requires, in essence, that primitive dissociation or lack of integration of the self and of object representations be overcome in the context of establishing ego identity and the capacity for object relations in depth. The second stage requires the successful overcoming of oedipal conflicts and the related unconscious prohibitions against a full sexual relation.”