We work in the dark – we do what we can – we give what he have. Our doubt is our passion, and our passion is our task. The rest is the madness of art

Henry James, The Middle Years, 1893
In: Henry James: Complete Stories 1892–1898 Scribner’s Magazine

Ne “Il Poeta e la Fantasia”, (1907) Freud comincia scherzosamente riportando la famosa richiesta che il cardinale Ippolito D’Este avrebbe mosso a Ludovico Ariosto, a proposito del suo libro “Orlando Furioso” : “Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie?” Dove attinge il poeta il materiale per le vicende che ci va esponendo? E come riesce a commuoverci così intensamente? Seguendo il suo interesse per le origini e lo sviluppo, Freud fa risalire la fantasia all’esperienza del gioco infantile. Nell’infanzia il gioco è un’imitazione dell’attività adulta, effettuata tramite una certa trasfigurazione della realtà. Tutti i bambini creano un loro mondo mentre giocano, dando un loro personale assetto alle cose, secondo i loro desideri. Questo è quello che sostanzialmente fanno i poeti, i drammaturghi, i romanzieri, i registi. Per Freud sia i giochi sia le fantasie rappresentano l’appagamento di desideri. Sappiamo come il mondo della fantasia non riguardi solo i bambini o gli scrittori: tutti gli adulti hanno fantasie con le quali si difendono da una realtà che non li soddisfa, o che desiderano abbellire. In entrambi i casi il lavoro mentale prende avvio da un avvenimento del presente, un’occasione attuale, in grado di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Questo suscita un ricordo infantile, unendo così passato e presente: la fantasia a questo punto concede un futuro dove tutti i problemi saranno risolti dall’immaginazione. Ogni singola fantasia è un appagamento del desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti. Passato, presente e futuro sono come infilati al filo del desiderio che li attraversa. L’aspetto più affascinante delle fantasie consiste nell’alto grado di organizzazione che evita contraddizioni e di conseguenza simula il rispetto del principio di realtà.

Per Freud il vero piacere dato dall’opera creativa consiste nella scarica delle tensioni che sono all’origine dell’elaborazione fantastica. “Ogni piacere estetico procuratoci dal poeta ha il carattere di un piacere preliminare e il vero godimento dell’opera poetica proviene dalla liberazione di tensione della nostra psiche.” E qui esprime un concetto che troviamo fondamentale: “L’artista consente ai suoi lettori di godere dei loro sogni diurni senza rimorso o vergogna.” L’artista svolge il suo lavoro in due modi: innanzitutto addolcendo il carattere delle sue fantasie egoistiche, con alterazioni e travestimenti, e in secondo luogo ci seduce con un piacere puramente formale. Chiama questo tipo di piacere piacere preliminare, o di allettamento. Bisogna dire che per Freud la forma più profonda di piacere era legata alla gratificazione della fantasia inconscia. I mezzi formali, lo stile usato dallo scrittore era il mezzo estetico per raggiungere un piacere più profondo, cioè di realizzazione attraverso la fantasia, dei propri desideri inconfessabili. Quali sono questi desideri? Erotici, economici, di potere.

In che modo ritroviamo questo materiale psicoanalitico, questi desideri erotici, economici, e di potere nel film La strategia del ragno di Bertolucci, da molti considerato il più “psicoanalitico” dei suoi film? Molti sostengono che con questo film si introduce, nel cinema politico di Bertolucci, quegli aspetti più prettamente psicoanalitici che diverranno centrali nelle sue opere successive.

Noi troviamo infatti che molta della psicoanalisi contemporanea sia stranamente presente in questo film del 1970. Si tratta di un film complesso, poco configurabile in un genere preciso, che possiamo analizzare sotto molti punti di vista. Ne abbiamo scelti alcuni, che convergono in una delle frasi finali dette dal protagonista, uno straordinario Giulio Brogi, interprete nel film sia del padre che del figlio. E’ una frase tratta da Sartre, che non viene però citato, perso ormai nell’ondulazione insensata di un’atmosfera rarefatta, senza confini e definizioni, autori e verità: “Un uomo è fatto di tutti gli uomini, li vale tutti e tutti valgono lui.”. (Sartre, “L’esistenzialismo è un umanismo”, Mursia, Milano, 1971)

La trama del film è piuttosto semplice: un uomo viene chiamato dalla vecchia amante del padre a cercare di scoprire gli assassini di suo padre, Athos Magnani, avvenuto nel 1936, a Tara, cittadina immaginaria del Parmense. L’inizio è sorprendente: scende insieme a lui, in questa desolata stazione di provincia un marinaio, che corre a zig zag, mentre Athos, che porta il nome del padre ucciso, cammina diritto. Subito dopo arriva nel paese, (che è in realtà Sabbioneta), un paese deserto, dove ci sono solo vecchi seduti su delle sedie, qua e là tra i portici e la piazza. Legge su di una targa il nome della strada, e stenta a metterla a fuoco. E’ la strada principale del paese, e porta il nome di suo padre. Via Athos Magnani. Poco dopo, in mezzo alla piazza vede il busto di suo padre, identico a lui e ci gira più volte intorno. Il paese vive nel culto dell’eroe antifascista: una via, un monumento e un circolo culturale sono dedicati a lui. I vecchi, cui chiede spiegazioni, dicono: “Ma è identico a lui, è Athos!” La macchina da presa registra la scoperta, la nudità, lo spaesamento del protagonista, immerso in quel paesaggio della Bassa così caro a Bertolucci (dove poi girerà Novecento), e nella perfetta scelta delle quinte teatrali di Sabbioneta/Tara (il nome della tenuta/omaggio a “Via Col Vento”).

Athos inizia un viaggio a ritroso nel tempo, un tempo storico del periodo oscuro delle lotte tra fascisti e antifascisti e un tempo psicologico interno, la ricerca dell’identità del padre e di sé stesso. Athos scopre di essere un sopravvissuto a una lunga guerra, non ancora finita, tra fascisti e antifascisti, nato dopo la morte del padre, di cui non sapeva niente.

“I sopravvissuti spesso portano sulle loro spalle i lutti non risolti dei loro genitori, e perciò si impegnano in tutta una serie di meccanismi di spostamento, che possono essere chiamati meccanismi “sostitutivi del processo del lutto” (Bergmann, 1982). Le fantasie si innestano nell’ambiente e si intrecciano nella realtà quotidiana invece di venire verbalizzate. Per tutto il tempo in cui le fantasie rimangono attive, i figli possono negare onnipotentemente che i genitori siano stati uccisi. L’idealizzazione dei morti spesso occupa il posto del processo del lutto; fantasie arcaiche riguardanti i morti continuano a esercitare un’influenza su affetti e azioni. Mantenere vivi i morti nella fantasia necessita un enactment in un modo concreto per “provare” che essi siano ancora vivi. Questo tipo di enactment conduce a vivere in due realtà, quella del passato traumatico dei loro genitori come in quella della loro realtà attuale.” (Kogan, 2013)

Tutto il film è orientato a descrivere questa doppia realtà, in un continuo passaggio da un flash back all’altro, utilizzando un gioco di specchi nella villa dell’amante, dove a tratti si specchia il padre del passato, a tratti il figlio e a tratti il nulla, uno specchio che non riflette, non trasmette alcuna immagine. Noi passiamo dalla rappresentazione fintamente realistica del rispecchiamento cinematografico alla confusione di uno spazio dove i protagonisti appaiono prigionieri. Lo specchio che dovrebbe rivelare infatti quello che c’è al di là delle intenzioni dei protagonisti, restituendo allo spettatore un punto di vista parallelo, non dissimile dai giochi di rispecchiamento, di illusioni e disillusioni della pittura barocca, non svolge la sua funzione di rappresentazione, e di restituzione, ma rimandando continuamente ad altri specchi, ad altre sale, ad altri corridoi, descrive un tempo mentale che è sempre e solo presente, dove il passato e il futuro si appiattiscono presentando una sola dimensione, quella interna, del mondo dell’inconscio, che è per definizione a-temporale.

L’immaginario viene rappresentato nella realtà cinematografica attraverso lo slivellamento dei due piani di rappresentazione: quello reale, e quello riflesso dallo specchio. Nel film la realtà interna è quella riflessa dallo specchio, simultaneamente presente alla realtà esterna collocata davanti allo specchio, che è costantemente asimmetrica nella sua riflessione speculare.

“Un altro aspetto dell’enactment nel caso dei sopravvissuti viene espresso nella fusione tra passato e presente che è un’altra forma di negazione della realtà. In questi casi, un individuo può fare sì che un altro agisca nei suoi confronti in un certo modo imponendo delle fantasie sulla relazione che sono legate al passato traumatico del genitore morto. Tali enactments esprimono un impegno verso la realizzazione di relazioni oggettuali sia con oggetti reali sia con oggetti fantasmatici.” (Kogan, ibid.), con una mancanza di differenziazione tra il Sé e gli altri, il passato e il presente, la realtà interna e quella esterna.

Al centro della compulsività ad agire l’esperienza traumatica dei genitori nelle proprie vite c’è un tipo di identificazione con il genitore danneggiato, che viene chiamata Identificazione primitiva. (Freyberg, 1980; Grubrich-Simitis, 1984; Kogan, 1995; 1996; 1998; 2002). Questa identificazione porta a una perdita del senso di Sé separato del bambino e a un’incapacità di differenziare tra sé e il genitore danneggiato. Noi troviamo questo fenomeno simile all’identificazione che accade nel lutto patologico. Freud (1917) descriveva questa identificazione come un processo nel quale la persona in lutto cercava di possedere l’oggetto diventando l’oggetto stesso, piuttosto che sopportarne una rassomiglianza. Questo capita quando colui che vive il lutto rinuncia all’oggetto, preservandolo contemporaneamente in modo cannibalistico. (Grinberg & Grinberg, 1974; Green, 1986). E’ questo tipo di identificazione che sta al centro dell’incapacità dei discendenti di raggiungere un’auto differenziazione e costruire una propria vita.

La coesistenza dell’identificazione globale del discendente da un lato e la negazione o repressione del trauma del genitore dall’altro crea un intervallo nella capacità emozionale del protagonista del film di capire, intervallo che possiamo denominare buco psichico, come ben documentato nei sopravvissuti all’Olocausto.

Il “buco psichico” nel film è l’incapsulazione di tutte le fantasie che riguardano il passato traumatico del padre, un’incapsulazione che ha un impatto sull’intera vita del protagonista.

Quando lo sviluppo cognitivo è sufficientemente sviluppato, e Athos è diventato adulto, nel film alla stessa età di quando il padre è stato ucciso, può cominciare a investigare sul passato di suo padre. [1]

Attraverso questi processi, quello che era conosciuto o quasi conosciuto diventa “sconosciuto”. E’ lo sconosciuto, o quello che non può venire ricordato, che diventa la fonte delle fantasie inconsce di Athos riguardanti il passato traumatico di suo padre, e il bisogno compulsivo di agirlo nella sua vita presente.

In tutto il film si svolge quello che Casetti (“Dentro lo sguardo”, Bompiani, 1986), definisce: “I due cammini paralleli tra verità e realtà.” La versione dei fatti offerta all’inizio e condivisa da tutta la Storia, ovvero l’assassino del padre, antifascista, per mano di ignoti fascisti venuti da fuori, cioè la realtà storica, viene man mano messa al vaglio delle prove e delle ricerche del figlio, creando uno slivellamento tra verità e realtà.

In questo senso la struttura nascosta della rappresentazione teatrale di tutto il film accompagna lo spettatore insieme al protagonista a volere contemporaneamente sapere e quindi restare a Tara, e volere sfuggire e lasciarsi alle spalle l’ambivalenza e la demistificazione della storia del padre. Continuamente nel film Athos (figlio) ripete: “Devo andare, devo prendere il treno”), ma questa azione viene differita, fino alla scoperta finale della verità, e al cambiamento della realtà storica raccontata. Allora Athos si avvia di nuovo alla stazione, rimette a fuoco la via (il nome del padre) e si ritrova in una stazione dove viene annunciato il ritardo del treno. Ma a poco a poco Athos si accorge che la stazione è in disuso, le rotaie colme di erbacce, la vicenda, tutta, forse, mai accaduta.

Il film contiene moltissimi riferimenti biografici dell’allora giovane regista

Nato a Parma nel 1941, il giovane Bertolucci – figlio del poeta Attilio – sembrava seguire le orme del padre iscrivendosi alla facoltà di lettere a La Sapienza di Roma, salvo poi abbandonare gli studi.

L’abbandono dell’università è dovuto alla sua vicinanza con Pier Paolo Pasolini di cui diventava assistente per il film Accattone.

L’esordio dietro la macchina da presa non tardava ad arrivare e nel 1962, su sceneggiatura di Pasolini, dirige La commare secca che risente fortemente della poetica e dello stile dell’intellettuale bolognese.

Ma il cinema di Bertolucci si discosta molto presto da quello di Pasolini per perseguire una filosofia personale connessa all’individualità dell’essere umano e il mondo politico circostante.

Film come Prima della rivoluzione (1964), Partner (1968), Strategia del ragno e Il conformista (1970) sono perfetti esempi del cinema di quegli anni, fortemente politicizzato ma specchio di un’ambiguità di cui la classe politica si fa inevitabilmente portatrice.

 

“In stato di grazia”

L’Italia degli anni Sessanta, il rifiuto del modello borghese, l’utopia comunista e infine la svolta del Sessantotto. Almeno in parte, forse, anche per l’influenza di Pasolini, la prima fase del cinema di Bernardo Bertolucci è profondamente radicata nel proprio tempo e nel proprio contesto storico: film quali La strategia del ragno adottano l’ottica privata dei personaggi per descrivere i mutamenti sociali, gli ideali delle nuove generazioni, la riflessione politica e le tendenze al ribellismo. Sul piano stilistico e narrativo, l’evidente modello di riferimento del giovane Bertolucci è il cinema della Nouvelle Vague, in particolare Jean-Luc Godard, uno dei suoi numi tutelari: quello stesso cinema a cui, quattro decenni più tardi, il regista renderà un omaggio esplicito e appassionato con il sensuale The Dreamers – I sognatori – – una rievocazione del Sessantotto parigino, ma anche dell’amore viscerale per la settima arte, chiave di (ri)lettura dell’esistenza.

Nel 1970, Bernardo Bertolucci realizza in contemporanea due pellicole basate entrambe sulle opere di due dei massimi scrittori del ventesimo secolo. Nato come una produzione televisiva della Rai, La strategia del ragno si ispira a un racconto di Jorge Luis Borges, Il Tema del traditore e dell’eroe, per osservare con sguardo demistificante il mito dell’antifascismo, demolito mediante un dramma che adotta la struttura del giallo e del noir e, soprattutto, che recupera uno dei temi centrali della poetica del regista, il rapporto fra le generazioni, messa in scena attraverso i superbi giochi di luci, di ombre e di colori del direttore della fotografia Vittorio Storaro (fedelissimo collaboratore di Bertolucci), crea un intreccio fra dimensione storica e privata che sarà ripetuto, sei anni più tardi, nell’ambizioso dittico Novecento.

Dice Bertolucci in un’intervista: “Poi ci fu un piccolo film nella bassa parmense che si chiamava Strategia del ragno, che non è attualmente in circolazione e non lo si può vedere. In quell’estate del 1969 secondo me eravamo un po’ tutti in stato di grazia e di conseguenza ne è uscito fuori un film fatto con molta grazia. Strategia del ragno, girato nel 1970, è un’opera sull’ambiguità della storia, sulla demistificazione delle figure eroiche dei padri borghesi antifascisti: bisogna trovare il coraggio di affrontare le ombre e superare i miti per vivere il presente e lavorare per il futuro.”

Adesso vogliamo sottolineare alcuni elementi, che convergono all’enunciazione della verità e suggeriscono allo spettatore gli “indizi” (Casetti) necessari per comprenderla:

La musica, ovvero l’Opera. È il Rigoletto, (1851) una delle opere più importanti di Verdi, che si svolge a Mantova (nella Bassa) e ha tra i suoi protagonisti il Duca di Mantova. Intenso dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta, Rigoletto non solo offre una combinazione di ricchezza melodica e potenza drammatica, ma pone lucidamente in evidenza le tensioni sociali in una realtà nella quale il pubblico ottocentesco poteva facilmente rispecchiarsi. Bertolucci ne fa la cornice, e lo sfondo musicale del film, ripetuto più volte, esplicitamente a teatro, (è durante la rappresentazione del Rigoletto che il padre verrà ucciso), nell’inutile attesa di un treno che lo dovrebbe riportare a casa fa partire il preludio dell’Opera, suggerimento implicito dell’impossibilità a staccarsi dalla coazione a ripetere della tragedia familiare. Il Rigoletto, come base musicale, e anche parte della rappresentazione del film (Athos viene ucciso a teatro, in un palco, con la macchina da ripresa che punta sullo specchio del palco), fa intuire che stiamo assistendo a una tragedia popolare, un tradimento e una vendetta. Ma anche che di questo dramma possiamo solo dire che siamo spettatori, come Athos figlio che vive la realtà storica e la verità come un sogno, visto attraverso lo specchio, che può essere vero, politico, o vero nell’inconscio.

La scenografia, ovvero Sabbioneta e la Bassa. La scenografia è di Maria Paola Maino, allora moglie di Bertolucci, perfetta come lo spazio enorme del film in cui ci si perde continuamente. È il luogo e il tempo della coazione a ripetere, dove il tempo rimane immobile, dove però assistiamo alle tragedie realmente avvenute della storia, stratagemma per illustrare il luogo e il tempo della memoria, eterna e interscambiabile.

3) Il soggetto del film è tratto da questo racconto di Jorge Luis Borges, Il Tema del traditore e dell’eroe. Scelta inusuale per Bertolucci, ma perfetta. Anche l’eroe di Borges è stato assassinato in un teatro. L’inizio del racconto è indeterminato “l’azione si svolge….”. O meglio si svolse perché il narratore è contemporaneo ma la storia è del secolo scorso. Il narratore è il bisnipote dell’eroe assassinato., un cospiratore , in un paese oppresso e tenace. Narra Borges: “K. fu ucciso in un teatro, ma di teatro gli servì anche l’intera città e gli attori furono legioni e il dramma coronato dalla sua morte occupò molti giorni e molte notti.” Il narratore (il bisnipote) ripeté scene del Macbeth, del Giulio Cesare. (anche Bertolucci utilizza le stesse scene di Shakespeare), Il narratore sospetta che qualcuno possa più tardi scoprire la verità. Sospetta di fare parte egli stesso della trama. Dopo tenace cavillare risolve di tenere segreta la scoperta. Pubblica un libro dedicato alla memoria dell’eroe. E anche questo, forse , era previsto.

Come possiamo vedere, anche in Borges la coazione a ripetere occupa tutta la trama del racconto. Il trauma diventa il destino su cui si organizza l’esistenza successiva, di chi lo ebbe come genitore o come avo. E così torniamo a Freud , e al trauma dei sopravvissuti.

“È uno di noi”
Trent’anni dopo Ultimo tango a Parigi, Bertolucci torna a indagare il tema del sesso e della rivoluzione con The Dreamers – I sognatori (2003) dove l’intimità all’interno delle mura di casa si mescola al turbinio dei moti del Maggio francese.

Mentre i genitori sono in vacanza, Isabelle e suo fratello Theo invitano Matthew, un giovane americano appena conosciuto alla Cineteca Nazionale, a casa loro. Durante la convivenza, i tre ragazzi sperimentano un codice di comportamento ed esplorano le proprie emozioni e pulsioni erotiche. Decidono di chiudersi in casa stabilendo ferree regole di com Intanto, fuori dalle mura di casa, scoppia il ’68, con scene ripetute di scontri e slogan ben noti. Bertolucci rivisita il ’68 e lo fa con un’estrema ricercatezza di stile. Anche in questo film, trent’anni dopo, Bertolucci rimane fedele ai suoi temi: possiamo solo dire che siamo spettatori, allo stesso modo dei protagonisti, che vivono la realtà storica e la verità come un sogno, visto attraverso gli specchi, che può essere vero, politico, o vero nell’inconscio. “I sognatori” il titolo del film, può alludere alle illusioni degli studenti del maggio francese, ai protagonisti del film, che vivono una realtà fittizia, per lo più estranea a ciò che accade fuori dalle mura di casa o fuori dagli schermi cinematografici. Ma può anche alludere a noi spettatori, che guardiamo, da voyeuristi, vicende cui non partecipiamo.

Anche per questo film vorremmo soffermarci su alcuni particolari che a nostro avviso definiscono in modo sottile e ricco di simbolismi, il vero significato del film.

Innanzitutto qui Bertolucci inframmezza moltissime scene o semplicemente citazioni di molti film. Inoltre vi sono infiniti piccoli dettagli come poster sulle pareti, inquadrature, battute, anche questi tutte allusioni ad altri film. Complessivamente si tratta di un omaggio al cinema, come arte suprema, e come luogo del reale e dell’immaginario insieme. Un aspetto claustrofobico, un’arte cinematografica che ingloba tutti i sentimenti, le passioni, le battute, le azioni che sono state pronunciate, agite, vissute sullo schermo. E così sembrano vivere i protagonisti del film, all’interno di un bozzolo dorato, che già tutto contiene, e che non richiede di uscire per alimentarsi d’altro; un Venusberg (monte di Venere) wagneriano dove le pulsioni erotiche abbondano.

Ma ad una visione più approfondita si può notare come le citazioni ed i flashback che accompagnano la vita dei ragazzi sono la parte oscura di ciò che stanno vivendo. Fin dall’inizio possiamo seguire questo filo nascosto. Il film comincia infatti con scene tratte da “Il corridoio della paura”, (Shock Corridor) che è un film del 1963 scritto, prodotto e diretto da Samuel Fuller. E’ un film cupo e violento, dove si riproduce anche lì un morboso rapporto a tre, con un sospetto incesto fratello-sorella. Il passaggio tra i tre personaggi di The Dreamers , sdraiati nel buio della sala a guardare il film, in prima fila perché: “Ci sedevamo vicino per vedere le immagini quando erano ancora nuove e fresche”, e le scene riprodotte dal film, con i tre protagonisti sdraiati nel corridoio dell’Ospedale psichiatrico, introducono un elemento perturbante, tra la bellezza del mondo reale, (la cineteca enorme e bellissima) e il claustrofobico ed orribile asilo psichiatrico. Qualcosa di quel disagio è entrato subito nella nostra mente, a sottolineare che non c’è solo Eros, ma anche Thanatos in questo film. E anche Wagner nel Tannhäuser mescola e accompagna i due temi, quello di Elisabetta e quello di Venere, confondendo Eros e Thanatos.

Poi abbiamo il riferimento ripetuto al capolavoro di Tod Browning, Freaks (1932). Questo film comprende il bizzarro triangolo amoroso tra un nano danaroso, un’attraente e avida trapezista e un rude e forzuto circense, una storia di omicidio, e un patto di vendetta tra il nano e i suoi amici “freaks” (appunto “fenomeni da baraccone“). Il film, una cruda e al contempo toccante allegoria sul tema del “diverso”, aveva causato molto scalpore, portando addirittura al taglio di alcune scene, considerate “inquietanti”, che riprendevano i “freaks“, che lo stesso Browning aveva preso da un vero circo. In The dreamers non si arriva a tanto nella casa, ma fuori, con l’esplosione della rivolta, e il famoso lancio della molotov da parte di Isabelle, il tema della vendetta viene rilanciato. The Freaks si presenta come un’amara, caustica ma anche toccante allegoria sulla “diversità”, affermando che spesso è proprio dietro la “normalità” degli individui comuni che si nasconde la vera “mostruosità” .Browning trattò la diversità dei freaks con simpatia e poetica compassione, ponendo l’attenzione sui loro sentimenti umani per sottolineare come essi non fossero differenti dai sentimenti provati dall’uomo medio. Bertolucci invece non prova compassione per i suoi bellissimi interpreti, che non subiscono mutilazioni. Vivono in una raffinata ed elegante dimora parigina, sono colti, spensierati e innamorati tra loro (l’incesto tra i due fratelli è alluso, ma mai realizzato). Ma c’è questa frase, che Isabelle ripete, trascinando gli altri: “E’ uno di noi!” frase famosa in Freaks. «Gooble- gobble! Gooble- gobble!», cantano i commensali, con una filastrocca destinata a grande fortuna. «L’accettiamo, l’accettiamo: è una di noi, una di noi, una di noi!»

A quale mutilazione saranno destinati i protagonisti? Quale aspetto pulsionale spensierato perderanno? Quale bellezza rischiamo di non vedere più? Forse Marlene Dietricht, nell’”Angelo azzurro” davanti alla cui immagine Theo è spinto a masturbarsi, o meglio, a eseguire pubblicamente ciò cui si dedica nel privato, o forse l’androgina Greta Garbo, nella “Regina Cristina.”?

Cosa sognano questi sognatori? Cosa desiderano?

Se nella Strategia del ragno l’aspetto transgenerazionale era dominante, qui c’è la sua distruzione, la forclusion au nom du père (Lacan, ). In una scena piuttosto forte del film Theo attacca il padre con Matthew, dicendo: “ il fatto che non creda lo autorizza a prendere il posto di Dio”. I genitori, amorevoli, non autoritari, comprensivi, intellettuali e famosi, vengono disprezzati e al contempo, soprattutto in Isabelle , generano awe, reverenza, terrore, come davanti a Dio, appunto.

E allora possiamo dire che in questo film, dove Bertolucci, di nuovo si rifà esplicitamente a Godard (in una scena Matthew ricorda come Godard dicesse “Nicholas Ray è il cinema (l’autore di Gioventù bruciata e Johnny Guitar)), l’aspetto della verità e della realtà di nuovo si confondono irreparabilmente.

Chiusi in un universo claustrofobico di una casa meravigliosa, che contiene tutto ciò che si può desiderare, persi in un universo cinematografico da cui copiano scene e dialoghi e vicissitudini. E’ memorabile la corsa attraverso il Louvre, che si alterna rapidissimamente con le scene originali del film che vogliono riprodurre, Bande à part (1964) Il capolavoro del regista Jean-Luc Godard è una delle pietre miliari della Nouvelle Vague. Racconta di due amici che, per portare a termine una rapina, seducono una compagna di classe con cui poi instaureranno un’amicizia a tre. E’ famosissima appunto la scena in cui i tre ragazzi corrono attraverso le sale del Louvre, superando i quadri di David e di Gericault. Il film di Bernardo Bertolucci racconta questo torbido rapporto tra due fratelli francesi e un ragazzo americano negli anni delle rivolte studentesche. I ragazzi spesso rievocano le scene più famose di film classici, sfidandosi a indovinare di quale pellicola si tratta. E’ proprio per imitare la famosa scena del film “Bande à part” di Jean-Luc Godard che decidono di fare una corsa a perdifiato nei lunghi corridoi del Museo Louvre, sfuggendo ai custodi.

Ci soffermiamo su questo altro particolare cinefilo di Bertolucci. E’ un omaggio a Godard, certo, ma anche una descrizione, anni dopo, della fuga velocissima tra le sale più importanti di uno dei templi più importanti della cultura francese, il Louvre. Contiene lo stesso apparente disprezzo e disinteresse per i libri della loro meravigliosa casa, dove, non a caso, c’è la riproduzione del quadro di Eugène Delacroix con Marylin Monreau in mezzo, al posto della Marianna.

Torniamo alle considerazioni iniziali di Freud ne “ Il poeta e la fantasia”. Dove attinge il poeta il materiale per le vicende che ci va esponendo? E come riesce a commuoverci così intensamente? Come abbiamo visto, Freud fa risalire la fantasia all’esperienza del gioco dell’infanzia. Nell’infanzia il gioco è un’imitazione dell’attività adulta, effettuata tramite una certa trasfigurazione della realtà.

Nel film i protagonisti imitano la nonchalance borghese dei genitori, (i due fratelli), e al tempo stesso imitano e riproducono le scene cinematografiche dei film. Come nella Strategia del ragno assistiamo a degli enactments espressi nella fusione tra passato e presente che è un’altra forma di negazione della realtà. Tali enactments esprimono un impegno verso la realizzazione di relazioni oggettuali sia con oggetti reali sia con oggetti fantasmatici. La confusione voluta del film, tra sogno e realtà, tra realtà presente e realtà cinematografica, trova il suo apice nella famosa scena del bagno dove i tre protagonisti, nudi, si vedono allo specchio e trasformano, ancora una volta, lo spettatore in un voyeur suo malgrado.

L’erotismo esplicito di questo film, la nudità esibita dei tre protagonisti rappresentano un aggancio con la realtà e la verità del desiderio, un bisogno di scappare dalla claustrofobia dell’incesto (tra i fratelli, e con i genitori) che però appunto finisce con il capovolgersi e trasformarsi in una fuga invece dalla realtà. Ad esempio nel venir meno a poco a poco delle vettovaglie, e dei soldi per comprarli, che li spinge a cercare nelle immondizie condominiali qualcosa da mangiare, piuttosto che a saccheggiare l’aristocratica cantina di vini della casa. Questo contrasto che racconta dell’inesorabile incapacità di continuare da soli a sostenersi nella realtà, diventa ancora più stridente quando i genitori , non visti, tornano dalla campagna e trovano una casa travolta dal disordine , e i tre accampati, e abbracciati, nudi, sotto una tenda in salotto. I genitori ancora una volta si dimostrano inadeguati nel porre delle regole e nell’offrire un contenitore alla pulsionalità dei figli, preferendo lasciare un assegno e tornarsene , non visti, in campagna.

Intanto, fuori, è ormai scoppiata la rivolta studentesca. Un sasso che rompe una finestra interrompe un tentato suicidio di Isabelle (che si è accorta del passaggio dei genitori) e proietta all’esterno il terzetto. Isabelle e Théo scelgono la lotta col carico di violenza che essa comporta, mentre Matthew resta in disparte. Di fronte all’alternativa se unirsi o no alla rivolta Matthew implora Isabelle di unirsi a lui, e di troncare così l’incestuoso rapporto che la lega al fratello, ma Isabelle lancia una molotov e non mostra dubbi, scegliendo senza esitazioni il fratello e la rivolta, e anche rilanciando così quel sasso che aveva infranto la loro simbiosi a tre. The Dreamers” viene quindi interrotto dalla Storia che, chiusa fuori dalla porta, rientra letteralmente dalla finestra.

Se è vero, come detto all’inizio, che l’aspetto più affascinante delle fantasie consiste nell’alto grado di organizzazione che evita contraddizioni e di conseguenza simula il rispetto del principio di realtà, il sasso che rompe la finestra ed interrompe il tentato suicidio, rompe anche la simulazione cinematografica della realtà. Il filo nascosto che aveva percorso tutto il film, attraverso le continue citazioni ed i flashback cinematografici che accompagnavano le azioni dei ragazzi era la parte oscura di ciò che stava accadendo. Uscendo di casa, il trio esce anche dallo schermo cinematografico. Entra nella vita, e nella realtà politica esterna, ma anche determina la fine della loro relazione sociale e affettiva, e la fine del film. Per Bertolucci la gratificazione che la fantasia inconscia fornisce non è più sufficiente, a questo punto. “L’immaginazione al potere” era uno degli slogan del ’68. Allora ci possiamo chiedere se alla fine del film, che è anche un percorso personale politico dei tre protagonisti, non ci sia un abbandono di questo slogan, una riconsiderazione, a trent’anni di distanza dal ’68, del rapporto tra il potere e la fantasia del poeta, tra la realtà politica e il mondo interno, tra l’asfalto e la spiaggia. (“sotto il selciato c’è la spiaggia” era un altro slogan del ’68). L’idealizzazione della fantasia, l’illusione mantenuta (Pontalis), si incrinano radicalmente, con questo finale, e tra Eros e Thanatos per Bertolucci riparte l’eterno conflitto.

La psicoanalisi
Quella della psicoanalisi (cui si è sottoposto per molti anni) è più che una “influenza”: il cinema di Bertolucci incarna la psicoanalisi, sia la sua personale sia nei suoi temi universali, l’Edipo, l’incesto, l’identificazione a massa, il predominio dell’inconscio e della realtà psichica sulla realtà esterna, la tragedia umana che ci vede sempre in cerca di un oggetto perduto e mai paghi, impotenti di fronte al subbuglio pulsionale e allo scacco di Eros, la vita, di fronte alla forza di Thanatos, pulsioni di morte che spesso nei suoi film, è proprio da un Eros incontrollato e utopico, come in Tango, che si liberano e distruggono il soggetto. “La psicoanalisi è sulla mia macchina da presa come un altro obiettivo – affermava [2] – avendo la coscienza di essere partito per scavare nel proprio inconscio per portare alla luce i misteri che lo rendono infelice, insoddisfatto, mai competente e veramente appagato”. Ironizzava, negli ultimi anni della sua vita, sulla lunga “carriera” analitica di trentacinque anni, che gli comportò anche diversi riconoscimenti da parte delle Società Psicoanalitiche [3]. “Dividerei la mia prima analisi in due atti – racconta in una recente intervista prima della morte [4] – la prima dura sette anni da Strategia del ragno (1969) fino a Novecento (1976). (…) Dopo Novecento al mio analista e a me parve venuto il momento di terminare l’analisi. Non ci riuscimmo. (…) Non riuscivamo a separarci l’uno dall’altro (…) e io cominciavo a somatizzare. Ci vollero altri sette anni, il secondo atto. (…) La psicoanalisi era diventata un obiettivo in più da aggiungere alla macchina da presa, e io avevo paura di perderla. Sceneggiavo i miei film in gran parte durante le sedute (…) elaboravo i miei film in analisi. Forse a volte invece di analizzare me analizzammo i miei film. Quelli fatti, quelli da fare”.

Potremmo dire, come spettatori anche senza essere psicoanalisti, che non c’è contrasto nell’analizzare sé stesso o i suoi film: come tutti i grandi artisti, Bertolucci era nei suoi film, è la sua opera che lo racconta lungo tutto il corso di una vita. Molti registi attraversano esperienze analitiche, ma questa assoluta coincidenza tra la vita e l’opera, questa inconsapevole continua pregnanza psicoanalitica ne fanno, come di dice insieme a Bergman e Woody Allen, il regista che più e meglio ha “sfruttato” le sue competenze psicoanalitiche trasportando nelle sue opere il contenuto stesso, rivisitato e mascherato dall’arte, della sua analisi (Caruso, 2014). Per questa ragione, o certamente anche per questa ragione, i film di Bertolucci, pur colti e a volte complessi nella cifra stilistica, riescono a raggiungere enormi fasce di pubblico, trasversalmente (si pensi che Ultimo Tango è il secondo film più visto nella storia del cinema) e a resistere nel tempo come miracolosamente intatti; perché sono film che promuovono nello spettatore la magia cinematografica, una forte identificazione proiettiva pur rimanendo se stessi al sicuro della sala buia, protetti dal filtro del rituale cinematografico, potendo così proiettare, senza viverle ma momentaneamente liberandosene, fantasie libidiche e aggressive, ossessioni, angosce che appartengono a tutti noi, ma che è l’attore ad agire, mentre noi possiamo tranquillamente rientrare in noi stessi (Metz, 1993).
Dopo La strategia del ragno, è Il conformista (1970) il film di svolta di Bertolucci, seguito subito dopo, in un incredibile slancio creativo, da Ultimo tango a Parigi nel 1972.

“Niente nomi qui”
Proprio mentre presentava “Il conformista” a New York nel 1970, Bertolucci ideò quella che disse era sempre stata una sua fantasia erotica: un uomo e una donna sconosciuti, che si incontrano unicamente per fare l’amore, senza nomi, senza preamboli, senza identità, sganciati dalla realtà, come sospesi in un intimissimo universo che appartiene solo a loro. Deflagrante, osceno, potente e furiosamente poetico ancora a tanti anni di distanza, il capolavoro di Bertolucci, “Ultimo tango a Parigi”, uno dei film più visti di tutta la storia del cinema e di cui la critica del New York Times Pauline Klee scrisse che aveva cambiato la Storia del cinema [5], nasce subito dopo “Il conformista”. Tutto, in Bertolucci, come abbiamo visto è psicoanalitico, non può prescindere dalla psicoanalisi per cui “tutti i miei film – dirà – sono stati fusi nello stampo dell’analisi, fondata in massima parte sul materiale onirico…e dopo tutto non sono forse i film fatti della stessa materia del sogno?” (2018) [6]

La storia è nota ed essenziale. Un uomo e una donna si incontrano, senza ancora parlarsi, in una strada di Parigi, ognuno cammina per conto proprio ma avvertiamo già in questa prima sequenza l’incombenza di un perturbante (Freud, 1919), di una fuggevole sensazione erotica. Lui è Paul (Marlon Brando) un maturo americano che ha da poco perso la moglie suicida, lei è la giovane Jeanne, figlia di un colonello, borghese, fidanzata col giovane Tom, un regista che sta girando un film su lei e la loro relazione, in una sorta di “film nel film”. La disperazione di Paul, che si trascina bestemmiando per le strade, e le incertezze giovanili di Jeanne, si incontrano in un appartamento vuoto, dismesso, che la ragazza ha adocchiato per affittarlo. Due solitudini, come le definisce Bertolucci, più che una coppia, dal primo incontro si amano spasmodicamente senza dirsi niente, senza presentarsi. Dall’incontro successivo Paul stabilisce la regola del perfetto anonimato: niente nomi, nessun ingombro dell’identità, niente passato e niente storia, nessuno deve sapere niente dell’altro. Jeanne accetta. Questa prepotente pulsione sessuale è l’unica, la prima risposta al lutto di Paul, una morte che gli è inspiegabile, assurda.

Dei molti registri del film, certamente Eros e Thanatos, l’urgenza, l’ingovernabilità, gli improvvisi capovolgimenti della pulsione ne costituiscono la cifra di fondo. La pulsione sessuale su un oggetto qualunque, ma che si incastra perfettamente con la stessa esigenza inconscia in Jeanne, farsi oggetto erotico di un rapporto spogliato all’osso. Anonimo, eppure straordinariamente intimo. È dunque l’identità un limite al piacere, all’espressione libera di sé? Si può realizzare una relazione di solo corpo, al di fuori della parola, al di fuori dell’iscrizione propriamente umana nel linguaggio? È il versante politico del film, sempre presente nella filmografia di Bertolucci; come ne “Il conformista” la messa in scena è il sociale, qui è la cellula umana di base, la coppia e in seguito, nel proseguo del film, la famiglia. Jeanne tenta, nel secondo incontro, di stabilire una normalizzazione.
Indimenticabile il primo dialogo:

Jeanne: non so come chiamarti…
Paul: non ho nome
Jeanne: vuoi sapere il mio?
Paul, (iroso): No! No” Stai zitta! Non dire niente…io non voglio sapere come ti chiami. Tu non hai nome e io nemmeno…nessun nome, qui dentro non ci sono nomi, non esistono nomi, capito?

Jeanne fatica, negli incontri successivi, a mantenere un patto che pure la affascina, e cerca di svelarsi, di parlare di sé; questo denudarsi è ben rappresentato dal suo corpo nudo, mentre quello di lui resta sempre vestito. Sempre con lo stesso abito: Brando (la cui presenza scenica, generosità nel darsi, le molte improvvisazioni, rende il film impensabile senza di lui) è chiuso in una corazza di dolore che, all’inizio, lo rende cinico e congelato. Jeanne gli confessa di essersi innamorata, mentre lo insegue con confidenze non volute su chi era suo padre, il primo amore, la sua età… Apparentemente impassibile, è dopo l’ingenua ma appassionata dichiarazione di Jeanne che Paul si reca dalla moglie morta, e la saluta in un toccante monologo. È il lutto elaborato, la morte come apertura ad una nuova nascita: Eros non può nascere senza “guardare la morte in faccia” [7], come dice Paul. Forte è la sensazione di estraneità di fronte al corpo della moglie morta: chi è la vera sconosciuta, la moglie Rosa che aveva un amante nello stesso albergo dove vivevano, o Jeanne? L’amore è inconoscibile, la relazione impossibile nella poetica di Bertolucci, l’altro è sempre un mistero; l’unica verità, dice Paul, è nel corpo, nel sesso. L’unica verità è pulsionale, nel solo principio del piacere.

Feroce critica alla famiglia come sistema falso, repressivo e borghese, è proprio nella scena più ‘calda’ e ai tempi più criticata del film, il violento rapporto anale di Paul su Jeanne, che lui urla tutto il suo odio e disillusione – Fucking! – verso i valori fondanti della famiglia, del matrimonio, della tradizione, nella ricerca utopica di una coppia che non si dice, non ama che attraverso il corpo svincolato dal sociale. È il registro, come detto, politico, eretico, anti-cattolico del film. Nel passaggio tra Il conformista e Ultimo Tango cogliamo bene l’essenza di tutto il cinema di Bertolucci, capace di abbracciare grandi movimenti storici fino al massimo dell’intimità sessuale, ma sempre ribadendo l’oppressione dell’individuo contro le barriere storiche, politiche, sociali che lo schiacciano (e che si estenderanno fino a L’ultimo imperatore), contro lo spirito gregario della famiglia borghese cui l’uomo deve sacrificare la sua felicità pulsionale (Freud, 1930); ma felicità che si rivela è ugualmente illusoria e impossibile. Il soggetto in Bertolucci è un soggetto senza speranza, schiacciato dal peso identitario ma impossibilitato a libarsene, costretto a sublimare la pulsione (l’omosessualità inconscia ne Il conformista), che tenta di cavarsela o nell’appiattimento alla folla gregaria (Freud, 1921) o nel tentativo di una sessualità potremmo dire infantile, perversa polimorfa, che vuol farsi soggetto sufficiente a sé stesso nell’utopia rappresentata dalla protezione delle quattro mura. L’uso dello spazio, che ne Il conformista raggiunge la sua massima valenza simbolica, è altresì un ingrediente essenziale alla poetica del regista; dove l’uomo si colloca spazialmente coincide con la sua rappresentazione interna ma anche esterna, nel senso che l’oscillazione interno-esterno, inconscio pulsionale e inconscio sociale sono, a nostro parere, l’essenza e l’originalità stilistica e psicoanalitica del cinema di Bertolucci. Nessun film come Ultimo tango ha avuto il coraggio di andare così in fondo nell’ingorgo tra Eros e Thanatos, nel loro inestricabile intreccio (Freud, 1920), nel crinale sottile tra il godimento (la juissance lacaniana) e il suo baratro.

Eros e Thanatos pulsano nel film, come dualismo pulsionale (Freud, 1920) che avvicina sempre, pericolosamente l’amore alla morte, ma anche film che rintraccia profondamente l’Edipo (dichiarato anche dallo stesso Bertolucci che è il primo film in cui ha cercato di staccarsi dal padre). I due si completano a vicenda: Paul è un chiaro surrogato paterno per Jeanne tanto da indossare il cappello del colonnello (padre di lei) verso la fine, e Jeanne è un rivitalizzante spostamento dell’amore per la moglie morta ad un nuovo oggetto, che sembra per tutto il film duttile e disponibile. La fantasia sottesa è dunque una fantasia incestuosa, il più inviolabile dei tabù. Non sarà così, perché quando anche Paul comincia a rivelarsi (sono autentici della sua infanzia i ricordi di Brando), rompe il patto che lui stesso ha costruito e nella famosa scena finale della sala del tango le chiede di sposarlo – un uomo nuovo con il primo abito nuovo del film – lei, spaventata, prossima alle rassicuranti nozze con Tom, lo rifiuta violentemente. Eros e Thanatos ritornano nella lugubre ed eccitata scena del ballo, dove i due sembrano gli unici corpi vivi in una sala di morti; l’amore, ci dice il regista, solo l’amore, ideale irraggiungibile, contrasta la morte. Proprio nella sua bella casa borghese, infatti, Jeanne lo uccide; quel mettersi il cappello, gioco edipico per Paul, diventa, nel riappropriarsene e indossarlo lei, sfrontata, atto di potere. Politico e psicoanalitico giocano la partita in Bertolucci: lo stesso atto che ha valenza giocosa in Paul, sottolinea il potere della borghesia se in mano a Jeanne, una borghesia che, come vedremo tragicamente in Il conformista, non muore mai, sopravvive a se stessa (non solo Jeanne, la madre sullo sfondo).

Annichilente e straziante il finale, dove il corpo di Paul giace riverso in posizione fetale, come in un’estrema, ultima regressione al punto di inizio, il grembo materno. Grembo che sembrava evocato anche dalla forma ovale dell’appartamento vuoto, simbolo da un lato della desolazione e lo sfacelo del mondo interno di Paul, ma anche dell’anelito all’impossibile, al ritorno alla relazione primaria, quella in cui non c’è che corpo prima della parola. Non c’è che l’essenziale; ma l’essenziale di un rapporto pre-linguistico, puramente pulsionale non può esistere nella realtà. Vince, anche qui, il conformismo di Jeanne, che ha solo momentaneamente giocato con la pulsione. Pulsione che si ribalta, come facilmente avviene in questi casi, da libidica in aggressiva, in un perfetto cambiamento di meta (Freud, 1915).

Moltissimi i simbolismi in Ultimo Tango, aiutati dalla splendida fotografia e dal montaggio. Il film si apre con due quadri di Bacon di un uomo e una donna [8] che dalla tela anticipano i due protagonisti sullo schermo, e le parole sussurrate da Brando, “Fucking God”. È l’uomo lasciato solo da Dio, come un Cristo abbandonato; pur assolutamente ateo, in questo capolavoro sulla solitudine e sulla disperazione, aleggia in qualche modo qualcosa di sacro. Si può forse avvicinare al sacro per come inteso da Pasolini, che ebbe molta influenza su Bertolucci giovane (con cui scrisse, come visto sopra, la prima sceneggiatura in La commare secca). Bertolucci non ha mai nascosto che la sua biografia è nella sua filmografia, e Ultimo Tango è forse quello più vicino alle vicende interne dell’autore (fino a Il conformista rivelò di essersi mosso in una geografia in qualche modo legata al padre, agli anni ’36 e ’37; con Ultimo tango attinge alle sue fantasie e se ne svincola completamente). Le grottesche figure della portinaia dell’albergo e di un’ospite che vuole entrare, amplificati da un montaggio iperrealista conferisce a personaggi di passaggio un senso di conturbante alienazione.

Altro tema in sottofondo è il doppio. La camera in cui la moglie si incontrava con l’amante è sinistramente uguale alla loro, come se la donna non fosse mai uscita dal rapporto con Paul ma lo avesse riprodotto, come unico rapporto possibile, in un esatto, inquietante doppio (con un altro inquilino nel chiuso antro dell’albergo, Massimo Girotti). Ancora più significativo quello che abbiamo chiamato “film nel film”; parallela a tutta la storia con Paul, la relazione tra lei e Tom è ripresa dallo stesso Tom (Jean- Pierre Léaud, icona di Truffaut e testimonianza dell’influsso della Nouvelle Vague in Bertolucci). È al centro di questo sottotesto il rapporto tra cinema e vita: è rappresentabile il sentimento amoroso? Nel momento in cui il cinema, la macchina da presa, cerca di catturare la vita sembra che non ci sia più vita. L’una divora l’altra.

Tutto questo visto finora, in un film che non è inquadrabile in nessuno schema e riduttivamente definito erotico, il primato delle pulsioni e la contiguità Amore e Morte, la dissacrazione dei valori borghesi e la ricerca utopica di sfuggirvi, l’archetipo edipico al fondo di ogni amore (“Ogni oggetto trovato è un oggetto ri-trovato, Freud 1905), l’ingannevole doppio cinematografico che cattura la vita e la annulla e molte probabili altre chiavi di lettura, fanno di Ultimo tango, nostro parere il vero testamento psicoanalitico di Bertolucci.

Il film restaurato è uscito in Italia nel 2018 senza più alcun divieto.

“Com’è l’uomo normale?”
Si domanda assillantemente Marcello Clerici (Jean-Luis Trintignant), protagonista de Il conformista.
Anche se, come detto, di pochissimo precedente a Ultimo Tango non ci sembra, con la poetica di questi due film, necessario seguire un criterio temporale. Marcello Clerici, tanto quanto tutti gli altri interpreti degli altri film, è personaggio come sospeso, assoluto per quanto inquadrato in un preciso momento storico, ma che appare, sotto la prodigiosa, grottesca messa in scena del regista, un uomo che sarebbe, che può vivere in ogni epoca, in ogni regime.

Alle soglie della Seconda guerra mondiale, Maurizio Clerici (il nome è sempre citato per intero nel film, quasi a ribaltare paradossalmente l’identità in un soggetto che cerca affannosamente l’anomia) decide di diventare spia della polizia politica fascista (OVRA), si reca a Parigi (città amata dal regista e preciso significante che torna in moltissimi suoi film [9]) in viaggio di nozze con la moglie Giulia, ma il viaggio è una copertura perché Marcello deve eliminare Marco Travi, suo ex professore universitario e ora diventato antifascista, quindi dissidente da fare fuori. Tra il professore e il giovane Marcello studente c’era stata stima; Marcello rinnega dunque, nella scelta precisa di diventare conformista ed essere “normale”, la parte vitale del suo passato, come se uccidesse una parte di sé nell’uccisione finale del professore. Marcello appare, in effetti, un uomo morto: il volto impassibile, le ombre evidenziate dalle molte inquadrature di sghembo, il suo origliare e spiare di nascosto dalle porte, la postura rigida, ne fanno una sorta di morto vivente. Pur sentendo per un attimo vacillare la fede del suo progetto omicida per l’invaghimento per Anna, la bella sensuale moglie di Travi, la missione viene vigliaccamente portata a termine: i due saranno uccisi, ma non per mano di Marcello. Una volta caduto Mussolini, nel ’43, Marcello e la moglie non esitano a passare dall’altra parte: la borghesia, ancora una volta, è sopravvissuta a se stessa, non ha pagato alcun prezzo.

Tratto liberamente dall’omonimo romanzo di Moravia (di cui modifica il finale e approfondisce la psicologia del personaggio, usando al massimo le potenzialità espressive del cinema), con Il conformista, a giudizio unanime della critica, la cifra stilistica di Bertolucci è matura, i suoi temi sono consolidati: l’oppressione dell’uomo in qualunque regime (il fascismo bene si presta per la sua stolidità, ma è metafora di ogni dittatura), e al tempo stesso la facile opportunità che i regimi offrono alla debolezza umana di aderirvi e trovare un’identità attraverso l’identificazione con un qualunque capo (Freud, 1921), l’ipocrisia della famiglia borghese e dei suoi valori, il continuo accoppiamento Eros/Thanatos e l’impossibilità dell’amore. Meno potentemente evidente che in Tango, tutto il film è pervaso da un perturbante erotismo, incarnato nei dettagli e nella vicenda pulsionale del Clerici. La sua aderenza al fascismo, infatti, così assoluta da apparire evidentemente difensiva, è una difesa dall’omosessualità inconscia. Per sottrarsi ad una insopportabile “diversità”, l’uomo comune non cerca il suo sé, non si mette in discussione, non si assume la responsabilità del suo desiderio: si conforma. Dopo un tentativo di sodomia a tredici anni (continui i flash back col passato, come a segnare un prima e un dopo del personaggio), Marcello sfugge internamente a quella seduzione, col risultato di un omosessualità latente, meglio una bisessualità, che tenta di imbrigliare sia con l’aderenza al regime e ai suoi noti valori “machisti”, sia sposando quella che definisce “una piccola borghese” e che disprezza, con le sue “ambizioni piccolo borghesi, felicità piccolo borghesi”, modello della donna che il regime reclamava con la sua propaganda, tutta casa e niente pensiero. Ma il dramma di Marcello, personaggio ambiguo per eccellenza, è anche di rendersi conto di tutto questo; la sua è una scelta, non è un inconsapevole.

La splendida inquadratura finale col suo volto immobile, inespressivo, lo sguardo vuoto, sembra attestare la consapevolezza tragica di una vita rovinata e, secondo alcuni, uno sguardo dritto allo spettatore come a richiamarci, noi tutti, alle nostre responsabilità nella Storia.

Benché delicato ad affrontarsi, imprescindibile è il discorso “politico” in Bertolucci, che non si esplicita in chiare prese di posizione ma in come il sociale condiziona l’inconscio e, a sua volta, l’inconscio impregna sociale: possiamo indiscutibilmente dire che l’inconscio è il sociale (Lacan, 1966).

Molti i punti in comune con Tango e i significanti psicoanalitici: l’uso simbolico degli spazi, la dialettica Eros/Thanatos giocata qui nelle due coppie ma come microcosmo dell’universo sociale, l’odio per la borghesia che, pur essendo assassina (Jeanne e Marcello) alla fine se la cava sempre, sopravvive a se stessa uccidendo l’autenticità dell’uomo, il sessuale (e non semplicemente il sesso) nelle sue valenze incestuose, perverse ed edipiche, la tragicità umana di fondo che non ci vede mai liberi, né dalle tirannie del sociale né da quelle delle pulsioni. Nessuno è mai innocente, in questi film, e anche l’amore, che pretende unica ancora di salvezza disarticolandosi dal simbolico (il rapporto incestuoso e utopico in Tango, la bisessualità sia di Marcello che di Anna che non conduce a nessuna scelta oggettuale) è pura finzione, illusione transitoria. Come Brando urlava contro la famiglia sodomizzando Jeanne, ne Il conformista la famiglia è devastante: non solo la coppia fittizia Marcello e Giulia, ma i genitori di Marcello (altro spettro da cui deve fuggire) con un padre ex squadrista violento ora folle e rinchiuso in manicomio e la madre drogata di morfina e dipendente sessualmente da un giovane che la sfrutta, rappresentano il totale sfascio di ogni morale intesa come etica, di ogni distruzione valoriale e affettiva che spiega, da un lato, l’evoluzione conformistica di Marcello, dall’altro l’impossibilità di una comunicazione umana, di una salvezza, all’interno del matrimonio.

Due le scene ad alto contenuto simbolico che racchiudono, come il ballo di Tango, tutta la straziante bellezza de Il conformista. Il dialogo sulla caverna di Platone a casa del professore, e il dialogo con il suo unico amico, il cieco Italo. Nella caverna gli uomini non vedono personaggi reali, ma solo ombre, proiezioni, mentre al ballo di nozze sono tutti ciechi: si può certamente dire che nelle dittature gli uomini vedono ciò che vogliono, non la realtà ma una realtà deformata dalle loro proiezioni inconsce e che la cecità è il prezzo che si paga a questo non voler vedere. Ma potremmo estendere la metafora alla condizione umana che sempre deforma la realtà per sopravvivere, che non siamo che ombre calate in una perenne oscurità. Il dettaglio delle scarpe diverse di Italo può far pensare all’ambivalenza di Marcello, il suo vedere le cose sia in un modo che nell’altro. Personaggio squisitamente ambiguo, questo dettaglio insieme alle molte inquadrature, come detto, che ne colgono lo stare sulla porta, implica anche l’intrinseca ambiguità dei conformisti: che cosa sono? Una cosa, l’altra? Una cosa vale l’altra? Le diverse voci della coscienza, che verranno fatte fuori come Italo? La stessa ambiguità dell’esistenza? Bisogna che nulla cambi perché tutto cambi, direbbe il Principe di Salina de Il Gattopardo. [10]

Se Ultimo tango esprime la forza dell’impossibilità dell’amore in questo mondo, con altrettanta forza ne Il conformista vince l’impossibilità della verità. L’uomo di Bertolucci inseguirebbe, a suo modo, il paradiso perduto dell’oggetto primario (le molte dinamiche incestuose) ma finisce vittima della pulsione, sia della morte sulla vita, sia del falso sulla verità.

Conclusioni
Vorremo concludere questa presentazione a volo d’uccello di questo grande regista italiano citando le parole di suo padre, Attilio Bertolucci, uno dei più noti poeti del Novecento, egli pure “malato di cinema”,

Parlando del figlio Bernardo, durante un’intervista, ricordò che suo figlio durante la presentazione del film a Venezia La commare secca difese, tra ardito e timido, la sua idea, mai più abbandonata, di un’equazione cinema =poesia. Ancora sempre Bertolucci padre disse, citando Henry James, a proposito della creazione artistica (H. James, “Middle Years”) “Noi lavoriamo al buio….” [11].

Ecco, dal buio della sala cinematografica, così amata da tutta una generazione di Bertolucci e non solo da loro, escono questi preziosi regali che vi abbiamo raccontato nella scelta di quattro film che abbiamo ritenuto emblematici, sapientemente intrecciati con una conoscenza non superficiale della cultura e della pratica psicoanalitica, anche per ricordare il grande regista recentemente scomparso nella sua casa romana il 26 Novembre 2018, dopo una lunga malattia.

Ci siamo mosse privilegiando due registri che, esaltati in questi film, non mancano mai in tutta la sua poetica: l’asse psicoanalitico e quello politico. Bertolucci non solo conosceva la psicoanalisi, la visse per tutta la vita nella sua pelle, diremmo nella sua carne: Eros e Thanatos, amore e morte, pulsioni di vita e pulsioni di morte sono il terreno di coltura delle sue opere. L’altro asse è quello politico, intendendo per ‘politico’ non tanto partitico, ma visione del mondo e della società, Velthensgaung amara e precisa che vede l’individuo sempre tentato dal conformismo (al punto di uccidere), dallo spirito gregario e dallo spasmodico bisogno di consenso che ne uccide le capacità di giudizio critico, da un lato, e segna l’impossibilità del farsi di una soggettività. Lo stesso individuo, schiacciato da un sociale che produce solo sofferenza e distrugge l’amore, è soggetto pulsionale: vuole vivere, desiderare, odiare, incarnare nell’altro gli scenari antichi, salvarsi. Sono film che vedono lo scacco di Eros di fronte a Thanatos, l’impotenza della Civiltà per come intesa da Freud ne Il disagio (1930) quale rinuncia pulsionale in cambio di una normale “infelicità nevrotica”. Per coazione a ripetere (e cioè derivato più roccioso della pulsione di morte), l’uomo di Bertolucci è, in effetti, l’uomo del Novecento, ingorgato da pulsioni che non saranno mai soddisfatte e dove Thanatos ha sempre la meglio, impossibilitato a sublimare perché risucchiato nel gorgo dello spirito gregario, dell’adesione a massa (Canetti, 1960) che la borghesia impone come unico sistema di vita. Psicoanalisi e politica si incrociano, a nostro avviso, perfettamente nel Freud maturo e disilluso degli anni ’30, che con Il disagio della civiltà, sembra avere dato statuto all’uomo che, forse inconsapevolmente come in tutti gli artisti, Bertolucci ha rappresentato nei suoi personeggi. L’uomo è destinato a ripetere, l’ingresso di Eros, pur possibile per brevi fratture del principio di realtà, non vince la coazione alla ripetizione dell’identico, rispetto alle più impervie ma trasformative possibilità dello stesso (De M’Uzan, 1970). (Per D’Uzan in concetto di “stesso” va contrapposto a quello di ”identico” , per meglio permettere di formulare in termini metapsicologici il concetto di trasformazione)

Tutto questo non fa, però, di Bertolucci paradossalmente, un regista necessariamente drammatico. La sua vitalità, il suo Eros sono presenti in tutti i suoi film che sono amati da larghe fasce di pubblico, come detto in apertura, e attingono quindi anche al principio di piacere e non mancano di momenti lievi, sublimi…. Come lo conciliamo con quanto abbiamo detto finora? Crediamo non vada dimenticata, come in ogni formazione giovanile, la forte influenza, il fascino che Pasolini esercitò su di lui e su tutta una generazione di artisti e intellettuali, e Pasolini è il poeta della “disperata vitalità” (1964). Solo dove c’è vita, Eros, ci può essere la sua trasformazione in morte; le due pulsioni non cozzano l’una contro l’altra ma convivono in un bilancio, in un legamento/slegamento dal quale dipende il rimanere vivi (Valdrè, 2019). Questo che può apparire quasi un ossimoro – disperazione e vitalità – ci sembra il lascito maggiore di Bernardo Bertolucci.

Eppure è il tempo più dolce dell’anno
quando la siepe brulla che recinge
del suo braccio il deserto dominio
si fa intima stanza allo smarrito
passero già colore della terra.
Qui siamo giunti dove volevamo…

Attilio Bertolucci, da La capanna indiana ed. Garzanti 1973.

Note:

[1] L’amante del padre, una straordinaria Alida Valli, si chiama Draifa, da Dreyfus, il capitano francese di origine ebraica ingiustamente condannato nel contesto dell’antisemitismo imperversante nella società francese nel 1894 e in seguito riabilitato dopo dodici tragici anni.
[2] Schiaretti M. (1994): Il viaggiatore dell’inconscio, in Campari R., Schiaretti M. (a cura di) In viaggio con Bernardo. Il cinema di Bernardo Bertolucci, Marsilio, Venezia
[3] Il Premio Musatti da parte della Società Italiana di Psicoanalisi nel 2006; un premio conferitogli dall’IPA in Messico nel 2011; l’invito a parlare di cinema e psicoanalisi da parte della Società Freudiana di Vienna in occasione del compleanno di Freud nel 2007, sua prima lectio magistralis della vita.
[4] Intervista con Barbara Massimilia, in: Eidos, n. 27, 2013
[5] The critic Pauline Kael proclaimed it “the most powerfully erotic movie ever made” and likened its premiere to the first performance of Stravinsky’s “Rite of Spring.”, The New York Times, 26 November 2018
[6] Prospero ne “La Tempesta” “Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni” William Shakespeare.
[7] Ne Il Simposio di Platone (201 <a>) “Eros che altro è se non in primo luogo di quelle cose di cui al presente è privo?”
[8] si tratta de Ritratto di Lucien Freud e Ritratto di Isabel Rawsthorne, che vogliono palesare brutalmente la fragilità della carne e la sua decomposizione morale.
[9] Parigi come città del possibile, unica ambientazione possibile del desiderio e perciò scenario di così tante sue opere.
[10] Se fossimo in un articolo esclusivamente cinematografico, molti sono gli accostamenti che si potrebbero fare tra la decadenza in Bertolucci e in Visconti. Inoltre , per entrambi , come già in Tommasi di Lampedusa , il potere continua a riprodursi sempre come se stesso; ma non è forse questa l’essenza della coazione a ripetere e in ultima analisi della pulsione di morte?
[11] ” Sara Cherin (1980): Intervista a Attilio Bertolucci in “I giorni di un poeta” La salamandra, Milano