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Psicoanalisi e Arte: un’introduzione

Gli psicoanalisti fin dagli albori della psicoanalisi si sono occupati delle forme di rappresentazioni artistiche secondo tre principali aree di ricerca:

– Lo studio delle opere artistiche come definizione degli studi biografici.
– L’analisi delle opere artistiche in sé.
– Gli studi delle fonti della creatività.

La prima area di ricerca è volta a considerare l’opera artistica come un’espressione della personalità dell’autore; in questa visione l’opera fornirebbe indizi su componenti della personalità che altrimenti sarebbero oscure ed enigmatiche. L’opera letteraria così assume il carattere di travestimento di aspetti invisibili o enigmatici dell’autore e il lavoro dell’analista sul testo diventa uno smascheramento piuttosto simile al lavoro sulle resistenze nel corso di un’analisi. Numerosi sono gli esempi in tal senso, il più famoso dei quali è sicuramente “La Gradiva” di Freud, ma forse ai nostri giorni questi approcci sono più usati dai critici letterari o artistici che tendono a volte ad utilizzare nelle loro critiche elementi di indagine psicoanalitica degli autori. Questa condotta ha suscitato giustificate proteste. Ogni tentativo di raggiungere delle conclusioni sugli autori dalle loro opere o dalle loro biografie senza la presenza del soggetto sottoposto all’indagine, cioè al di fuori della situazione analitica terapeutica in senso stretto porta con sé il rischio inevitabile della soggettività. La produzione artistica di un autore spesso trascende i suoi conflitti interni, le sue mancanze, le sue frustrazioni o paure, e l’analisi di queste risulta sempre riduttiva rispetto al significato artistico e letterario dell’opera in questione.

Da un punto di vista psicoanalitico possiamo dire che il grande interesse di queste psicobiografie risiede non tanto nella individuazione e ripresa dell’infanzia dell’artista, quanto nello svelare le fantasie inconsce espresse dall’opera d’arte, che in quanto tali ci permettono di raggiungere una comprensione più radicale del suo contenuto e della sua rappresentazione.

La seconda area, cioè l’analisi psicoanalitica non tanto dell’autore quanto dell’opera letteraria/artistica in sé è una modalità di analisi che si è guadagnata una certa forma di rilievo non solo rispetto alle opere letterarie ma più frequentemente a mio avviso verso altre espressioni artistiche, soprattutto le arti visive.

A livello letterario numerose interpretazioni psicoanalitiche delle opere d’arte sono fiorite nei circoli psicoanalitici poco dopo il famoso studio di Freud sulla Gradiva di Jensen autore tedesco (1837-1911) che ebbe una certa rinomanza come romanziere in Germania intorno al 1900.

Su quest’ultima area di studio ci sono alcune considerazioni di ordine metodologico da fare, e che sono state abbondantemente fatte, già a partire dagli anni trenta. Per esempio Roger Fry già nel 1924 aveva scritto un lavoro intitolato: “L’artista e la psicoanalisi” nel quale sottolineava come fosse riduttivo l’approccio psicoanalitico all’arte. La critica principale, quella che tuttora rimane la più condivisa, consiste nel fatto che gli psicoanalisti così facendo si concentrano sul contenuto dell’opera d’arte, anziché sulla forma, che è poi l’essenza dell’espressione artistica. Anche un approccio esclusivamente simbolico all’opera d’arte rischia di essere eccessivamente riduttivo dei suoi significati profondi; cioè in un libro noi non possiamo concentrarci solo sul simbolismo perché perderemmo di vista altri fondamentali significati della sua comunicazione.

Infine il terzo approccio psicoanalitico, quello che adesso esamineremo più in dettaglio si occupa delle fonti della creatività.

Freud fu sempre molto affascinato dall’arte, soprattutto dalla letteratura. Strachey ha contato non meno di 22 lavori di Freud che riguardano direttamente o indirettamente i problemi della creatività artistica. Per tutta la durata della sua lunga produzione scientifica Freud ha sempre cercato di riferirsi alle opere dei grandi poeti. Soprattutto citati da Freud appaiono Shakespeare, Goethe, Dostoevskij, Schiller.

Nel 1907 Freud pubblica il primo dei suoi lavori dedicati al cosiddetto enigma creativo: ed è il già citato studio sulla Gradiva di Whilelm Jensen.

La Gradiva racconta la storia di un archeologo, tutto preso dallo studio di un bassorilievo antico raffigurante una giovane donna, il quale viene colto progressivamente da un insieme di idee deliranti che lo conducono a comportarsi in modo strano e dissennato; a conclusione di varie vicende egli è ricondotto alla piena normalità per l’azione esercitata su di lui proprio dalla stessa persona, una ragazza, che si era trovata al centro del suo delirio. Nel racconto il protagonista fa tre sogni che sono in qualche modo connessi al delirio, del tutto simili a quelli che possono essere sognati da un individuo reale, tanto da spingere Freud, su indicazione di Jung, ad intraprendere un lavoro interpretativo sul testo come se fosse stata una vera vicenda clinica.

Pochi mesi dopo viene invitato a tenere una conferenza da un libraio di Vienna Hugo Heller che aveva inviato un questionario sulle loro preferenze letterarie a 32 personaggi illustri, con personaggi come Herman Hesse, Arthur Schnitzler, August Forel, Hugo von Hoffmanstall, ed altri. L’obiettivo di questo saggio, che poi infatti Freud pubblicò subito dopo il testo della conferenza con il titolo: “Il Poeta e la Fantasia” è molto semplice: cercare di illustrare da un punto di vista psicoanalitico l’origine della creatività, ovvero le fonti psichiche della materia poetica.

Richiamo questo saggio lontano, vecchio ormai più di 100 anni, perché contiene nella sua essenzialità e stringatezza, alcuni elementi che poi in seguito Freud stesso ed altri autori che si sono occupati della creatività, soprattutto Melanie Klein, e Bion sono andati ad utilizzare. Devo fare una piccola premessa. Freud era, da un punto di vista letterario, particolarmente efficace. Possedeva al massimo grado doti di chiarezza ed eleganza, al punto tale che uno dei massimi critici letterari contemporanei, Harold Blum, lo colloca tra gli autori canonici della letteratura occidentale ovvero iniziatori di un canone letterario, insieme tra gli altri, Shakespeare, o Dante. (Blum, H. Il Canone Occidentale, 2008). Anche Foucault lo definisce come un autore seminale, da un punto di vita dell’inevitabile riferimento al suo stile, e alla sua modalità organizzativa del discorso nella scrittura psicoanalitica da parte degli autori psicoanalitici successivi.

Ne “Il Poeta e la Fantasia”, (1909) Freud comincia scherzosamente riportando la famosa richiesta che il cardinale Ippolito D’Este avrebbe mosso a Ludovico Ariosto, a proposito del suo libro “Orlando Furioso” : “Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie?” Dove attinge il poeta il materiale per le vicende che ci va esponendo? E come riesce a commuoverci così intensamente? Seguendo il suo interesse per le origini e lo sviluppo, Freud fa risalire la fantasia all’esperienza del gioco dell’infanzia. Nell’infanzia il gioco è un’imitazione dell’attività adulta, effettuata tramite una certa trasfigurazione della realtà. Tutti i bambini creano un loro mondo mentre giocano, dando un loro personale assetto alle cose, secondo i loro desideri. Questo è quello che sostanzialmente fanno i poeti, i drammaturghi, i romanzieri. Per Freud sia i giochi sia le fantasie rappresentano l’appagamento di desideri. Il mondo della fantasia non riguarda solo i bambini o gli scrittori, però: tutti gli adulti hanno fantasie con le quali si difendono da una realtà che non li soddisfa. In entrambi i casi il lavoro mentale prende avvio da un avvenimento del presente, un’occasione attuale, in grado di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Questo suscita un ricordo infantile, unendo così passato e presente: la fantasia a questo punto concede un futuro dove tutti i problemi saranno risolti dall’immaginazione. Ogni singola fantasia è un appagamento del desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti. Passato presente e futuro sono come infilati al filo del desiderio che li attraversa. L’aspetto più affascinante delle fantasie consiste nell’alto grado di organizzazione che evita contraddizioni e di conseguenza simula il rispetto del principio di realtà.

Per Freud il vero piacere dato dall’opera creativa consiste nella scarica delle tensioni che sono all’origine dell’elaborazione fantastica. “Ogni piacere estetico procuratoci dal poeta ha il carattere di un piacere preliminare e il vero godimento dell’opera poetica proviene dalla liberazione di tensione della nostra psiche.” E qui esprime un concetto che io trovo fondamentale: “Lo scrittore consente ai suoi lettori di godere dei loro sogni diurni senza rimorso o vergogna.” Lo scrittore svolge il suo lavoro in due modi: innanzitutto addolcendo il carattere delle sue fantasie egoistiche, con alterazioni e travestimenti, e in secondo luogo ci seduce con un piacere puramente formale. Chiama questo tipo di piacere piacere preliminare, o di allettamento. “Ogni piacere estetico procuratoci dal poeta ha il carattere di tale piacere di allettamento o preliminare, e il vero godimento dell’opera poetica proviene dalla liberazione di tensione della nostra psiche.” Bisogna dire che per Freud la forma più profonda di piacere era legata alla gratificazione della fantasia inconscia. I mezzi formali, lo stile usato dallo scrittore era il mezzo estetico per raggiungere un piacere più profondo, cioè di realizzazione attraverso la fantasia, dei propri desideri inconfessabili. Quali sono questi desideri? Erotici, economici, di potere.

Adesso noi abbiamo una visione più ampia del desiderio libidico, rispetto a queste nozioni per certi versi relativamente limitate. La grande arte ci consente di godere non solo delle nostre fantasie, ma anche aggiunge all’esperienza e visione del mondo una dimensione senza la quale ci sentiremmo molto più poveri.

Creatività: rassegna della letteratura psicoanalitica.

Come già detto Freud è sempre stato affascinato dall’arte; le sue scoperte sulle fantasie inconsce e sul simbolismo hanno permesso nuove prospettive e approfondito le nostre conoscenze su quella “suprema espressione simbolica della fantasia che è l’arte” (Segal, 1991)

In sintesi possiamo dire che Freud e gli altri autori immediatamente seguenti hanno considerato la creatività artistica come un aspetto del funzionamento mentale molto simile alla formazione dei sogni. Hanno spiegato come la creatività artistica, allo stesso modo dei sogni, derivi dal lavoro inconscio sui residui delle esperienze diurne, soprattutto quelle represse. La teoria delle pulsioni domina quindi lo sviluppo della teoria freudiana sulla creatività. Come detto prima, ci si chiede oggi se questa lettura sia al giorno d’oggi ancora pienamente accettabile. Esiste cioè una pulsione artistica che possiamo legare al mondo delle pulsioni e che rappresenta l’energia libidica dell’essere umano in campo artistico, una fisiologica, istintuale pulsione creativa? Wolleheim ha sottolineato giustamente che tutti gli scritti di Freud sull’arte precedono la sua revisione teorica dell’elaborazione della teoria strutturale della mente (Io, Es e Super Io), e, forse, questo aspetto pulsionale della creatività sarebbe stato ridiscusso nei termini di esigenze egoiche e superegoiche, ed il soddisfacimento libidico della creatività sarebbe forse stato ridimensionato in favore di una creatività necessaria per l’elaborazione dei conflitti inconsci. Anche con l’elaborazione del concetto di sublimazione tutta l’attività creativa viene spiegata come una funzione delle capacità di sublimazione delle pulsioni sessuali e, più tardi, di quelle aggressive. Una critica metodologica a questo approccio sottolinea come così si valuti l’avvenuta sublimazione solo dopo la verifica del successo dell’atto creativo, ed è pertanto una considerazione valida solo a posteriori. (Gedo, 1998)

La psicologia dell’Io sposta la sua attenzione dall’osservazione dei processi inconsci in gioco nella genesi della creatività a quelli preconsci. Tale approccio deriva dalla revisione, operata dagli psicologi dell’Io, della teoria delle pulsioni, che dà molto più spazio ai meccanismi di difesa dell’Io, cioè a quelle funzioni che inibiscono le immediate gratificazioni pulsionali. Dobbiamo ad Ernst Kris i primi fondamentali studi della moderna teoria psicoanalitica dell’arte.

Anche Kris parte dal confronto tra lavoro del sogno e lavoro dell’arte, ma sottolinea come il rapporto tra Io ed Es non comporti solo i compromessi tra queste due istanze, ma anche la relazione tra processi primari e secondari. Tale relazione nel lavoro dell’arte apparirebbe rovesciata, nel senso che ciò che nel sogno ha l’aspetto di un compromesso e di una sovradeterminazione, nel lavoro artistico invece appare come una molteplicità di significati, importanti ai fini dell’obiettivo estetico finale. L’Io si troverebbe quindi a controllare il processo primario per ottenere un’espressione artistica soddisfacente alle necessità espressive dell’Es. (Freud parlava a tal proposito della “flessibilità della rimozione” negli artisti). Un altro fondamentale contributo di Kris alla psicologia dell’arte risiede nella scomposizione del lavoro creativo in due fondamentali elementi, l’ispirazione e l’elaborazione. Nella prima prevalgono gli aspetti più regressivi, esperienze estreme riconducibili a quelle dei mistici o dei profeti, nella seconda prevalgono invece gli aspetti più simili al lavoro comune, la concentrazione e l’impegno.

Tra gli autori più recenti che hanno dato importanti contributi in questo filone di pensiero, possiamo citare Pinchas Noy, (1968, 1972, 1978, 1984) e più di recente John Gedo (1983, 1996).

L’approccio Kleiniano all’arte tende invece ad enfatizzare un processo di autoterapia più sistematica nel quale si lavora sui conflitti infantili profondi collegati agli oggetti interni. La pulsione artistica viene specificatamente legata alla posizione depressiva. La parte più costruttiva di questo processo cerca di costruire un passaggio più solido dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva, attraverso relazioni oggettuali interne che consolidano e stabilizzano il mondo interno. Il bisogno dell’artista diventa quello di ricreare ciò che sperimenta nel profondo del suo mondo interno. Coerentemente con la loro teoria, i Kleiniani credono che si debba pensare all’artista come a colui che rappresenta il continuo processo delle relazioni tra i suoi oggetti interni e tutte le vicissitudini di attacco e riparazione. E’ attraverso la percezione profonda della posizione depressiva che il proprio mondo interno è scosso ed alterato che l’artista giunge alla necessità di ricreare qualcosa che percepisce come un mondo completamente nuovo. Questa necessità riparativa è, per i Kleiniani, all’origine della creatività.

Donald Meltzer e soprattutto Hanna Segal sono gli autori che più coerentemente hanno proseguito gli studi Kleiniani sull’esperienza riparativa creativa, ma in questo campo non possiamo non citare un altro autore, un critico d’arte molto legato alla tradizione psicoanalitica che ha scritto alcune pagine fondamentali sul significato dell’arte alla luce dei principi della psicologia Kleiniana. Si tratta di Adrian Stokes, già paziente di Melanie Klein, il cui libro fondamentale, “Painting and the Inner World” che contiene anche un’interessante intervista con Donald Meltzer (1963) è stato recentemente ripubblicato.

 

Winnicott in numerosi suoi lavori ha discusso l’importanza della capacità di essere soli per poter sviluppare un qualche tipo di processo creativo. E’ anche stato il primo a capire veramente l’importanza del gioco nel bambino come strumento creativo. Ha postulato quella che lui chiama “creatività primaria”, dove il bambino cerca di ricreare in modo allucinatorio la perduta fusione con l’universo materno. La sua definizione de “l’area intermedia di esperienza” come quello spazio potenziale al quale contribuiscono sia la realtà interna che l’ambiente esterno è un concetto basilare che ha permesso un’esplorazione più profonda del processo creativo.

Bion sostiene che se la funzione alfa è assente, cioè se le funzioni di rappresentazione, simbolizzazione e di pensiero sono deficitarie, il processo creativo non può essere iniziato. Dato che la funzione alfa è strettamente legata alla funzione simbolica, per Bion il processo creativo ha più a che fare con la capacità di simbolizzazione come si osserva negli elementi alfa che con gli elementi beta che rappresentano un’organizzazione simbolica più concreta.

Eugenio Gaddini nel suo lavoro sui processi creativi ha discusso un nuovo concetto che ha definito come “Imitazione”. Le imitazioni sono differenti dalle identificazioni perché prima di tutto le precedono nei primi stadi di sviluppo, poi perché hanno a che fare con le fantasie inconsce e non con la realtà e finalmente perché perseguono il loro processo di sviluppo in modo apparentemente indipendente dalla struttura dell’Io. Ed è esattamente a questo punto che Gaddini crea una connessione con i processi creativi, che a suo avviso hanno a che fare con relazioni oggettuali e fantasie molto primitive, piuttosto che con più mature identificazioni.

Joyce Mc Dougall in numerosi suoi lavori collega il mondo della creatività con quello della sessualità. La creatività origina per lei nel corpo erogeno, come tentativo di superare la perversa onnipotenza dei desideri bisessuali dell’infanzia. Inoltre per la Mc Dougall la violenza è un elemento essenziale in ogni produzione creativa, perché è un tentativo di imporre il proprio pensiero interno al mondo esterno.

Io spero che voi siate sopravvissuti a questa estenuante esposizione teorica sulle ricerche e ipotesi teoriche psicoanalitiche sulla creatività. Spero di essere riuscita a trasmettere alcuni concetti indispensabili alla successiva trattazione e cioè alla funzione dell’arte nello sviluppo psichico dell’individuo e al suo contributo all’equilibrio psichico e alla felicità.

Oltre che al concetto di fantasia, sul quale mi sembra ci siamo sufficientemente dilungati, è adesso importante accennare a tal riguardo al concetto di spazio psichico, come luogo dove soggettivamente si percepiscono gli eventi psichici. Per Freud, come abbiamo visto, questo era un territorio dove si poteva dare un appagamento illusorio ai desideri arcaici di un individuo. Winnicott riprende e sviluppa questo modello nella sua teoria dello spazio transizionale, “area intermedia che chiamo luogo di riposo perché quando l’individuo vive in quest’area non è impegnato a distinguere tra realtà fattuale e fantasia” Lo spazio transizionale è l’area del gioco, nella quale si possono unire le fantasie interne ed il principio di realtà. Il rapporto che l’area transizionale ha con la realtà è sostenuto da un apparente paradosso, che è poi il paradosso della creatività, la famosa domanda del Cardinale D’Este. “Il bambino crea l’oggetto del gioco ma l’oggetto era lì in attesa di essere creato e di venire investito dal desiderio.” (Winnicott, Gioco e realtà, 1971) E’ la mancanza di distinzione tra soggettività ed oggettività che rende questo spazio potenziale. Questa area di esperienza è utilizzabile durante tutta la vita, e non solo da bambini. E’ l’area, più in termini generali, dove si collocano nell’età adulta le esperienze culturali, quelle spirituali, quelle estetiche. E tornando a noi, è l’area del piacere dato dall’arte.

Come esiste nella vita un posto per il sonno, così pure esiste un posto per l’evasione dalla realtà. Questo spazio transizionale, per usare il termine di Winnicott può essere fornito dai libri, dai film, dalle opere d’arte in genere. Se queste aree diventano aree permanenti di rifugio, divengono organizzazioni patologiche. Se usate in modo eccessivo sono i cosiddetti ritiri psichici di cui parla John Steiner, e che tutti noi conosciamo bene nei loro aspetti più estremi come il fanatismo religioso o l’abuso televisivo o letterario.

Esiste infine un’altra area a cui vorrei accennare, e cioè quella in cui attraverso la letteratura noi possiamo dare voce ed espressione a sentimento sconosciuti, che proviamo ma che non sappiamo di provare. E’ quello che ci dà la possibilità creativa di esistere e di comprendere e di sviluppare la cosiddetta capacità di mentalizzazione.

A tale riguardo desidero fare due esempi perspicui, uno decisamente poco noto, una storia reale che è poi diventata un caso letterario nel 2002.

Bob Smith è un bambino che vive in una cittadina degli Stati Uniti, che si chiama come il paese natale di Shakespeare: Stratford On Avon, nel Connecticut. Di origini modeste, e con una sorellina handicappata, che sconvolge la routine quotidiana familiare, si ritrova un giorno , a dieci anni, nella piccola e bella biblioteca della cittadina, complice un acquazzone che lo costringe a cercare riparo nell’edificio pubblico.

Dal libro: “Il ragazzo che amava Shakespeare” (2002):
“Stando a piedi nudi sulla ruvida pila di giornali mi guardai intorno. E non vidi nessuno. Sembrava che a parte la bibliotecaria e me non ci fosse nessuno… Di fronte a dove stavo sgocciolando, sul muro sopra il caminetto, c’era un piccolo ritratto rotondo di vetro colorato. Raffigurava un uomo grasso e calvo, con una stupida barba a punta e assurdi baffi con le punte rivolte in su….Sulla copertina blu di un libro era stampato in color oro la stessa faccia grossa che c’era sulla finestrella. Sulla costa era scritto:
William Shakespeare
“Il mercante di Venezia”.

Lo aprii e vidi subito che si trattava di un testo teatrale.
Atto Primo.
Scena Prima.
Venezia.
Antonio: “In verità non so perché sono così triste.”

Le rilessi. Otto semplici brevi parole, e naturalmente non potevo capire cosa significasse in verità. Ma non era necessario. Non cambiava affatto la semplice enunciazione, che non avrebbe potuto descrivere in modo più accurato il ragazzino che la stava leggendo. Credo che più si è confusi dentro, più si ha bisogno di credere in qualcosa. Avevo un disperato bisogno di appoggiarmi a qualcosa che fosse più grande di me, ed era chiaro William Shakespeare capiva come era soffrire senza neanche sapere perché…. Shakespeare diventò così il mio linguaggio segreto, una lingua remota, antica, che in un certo senso, mi rendeva più visibile a me stesso. Quando un’espressione trasmette al pubblico una verità assoluta, vedo (oggi) la gente emozionarsi e confermare: “Sì sì, è proprio così: E’ proprio quello che penso io. Quando l’ha scritto quell’autore?” Credo che quelle ore abbiano salvato la mia vita.”

Un’analoga storia, ma da un altro verso, possiamo raccontarla per le sorelle Bronte.

Le sorelle Bronte erano un trio di scrittrici vittoriane della prima metà dell’Ottocento, famose per avere pubblicato tre romanzi nello stesso anno, il 1847. Charlotte, Emily e Anne, caratterizzate da un’intensità emotiva assolutamente inusuale dato l’isolamento in cui erano cresciute nella parrocchia del loro padre. La tragica ed insolita vita delle sorelle Bronte, lo sfondo selvaggio della brughiera dello Yorkshire che ricorre sistematicamente nei loro romanzi precorre, nella loro desolata natura, opere successive. Scrivere fu per le sorelle una forma di terapia, una fuga dall’asprezza educativa del padre e dalla durezza emotiva e materiale dell’ambiente. Il mondo della fantasia, sfrenata e selvaggia, che caratterizza le loro opere, il carattere cupo e solitario di Heathcliff, l’uomo fatale, i mostruosi orrori psicologici che mai si erano manifestati nella loro virginea vita, rivelano un universo intero, un mondo interno riparativo di un’altra desolazione, quella della noia, la miseria intellettuale e emotiva, l’abbandono della vita familiare . Anche per Charlotte, Emily e Anne possiamo dire che “In verità non sapevano perché erano così tristi.” Ma lo erano (e non accenno qui alla morte dell’amato fratello, o alla tisi che le portò via tutte), e scrivere fu per loro la possibilità di riparare questa tristezza, vivendo in un mondo letterario denso di passioni e tormenti, mai provati nella vita reale.


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